Dieci anni fa la sinistra italiana scriveva una delle leggi sul lavoro più discusse della Seconda Repubblica. Oggi quella stessa sinistra ha provato a cancellarla con un referendum. Ma il Paese ha detto: no, grazie.
🔙 Un po’ di storia (che fa ancora male)
Nel 2014 il governo Renzi — targato Partito Democratico — presentava il Jobs Act come il grande piano per rilanciare l’occupazione. Era l’era dei “rottamatori”, del 40% alle Europee, del “fare presto” e del cambiare verso.
Il Jobs Act cancellava di fatto l’articolo 18 per i nuovi assunti, semplificava i licenziamenti, rendeva più facili i contratti a termine. Un terremoto, soprattutto per la sinistra che storicamente aveva difeso i diritti del lavoro. Ma quella riforma passò, e passò con forza.
🗳️ 2025: la sinistra cambia idea (e propone un referendum)
Ora, nel 2025, lo scenario è ribaltato. Con una nuova leadership (Elly Schlein), un partito diverso, e una spinta dal basso guidata dalla CGIL e da movimenti civici, il Partito Democratico e il Movimento 5 Stelle hanno promosso un referendum per cancellare pezzi di quel Jobs Act.
I quesiti andavano dal reintegro contro i licenziamenti illegittimi fino alla sicurezza nei subappalti. Temi giusti, socialmente urgenti. Ma l’esito? Un disastro: 30,6% di affluenza, referendum annullato.
🤯 Ma come si può chiedere di cancellare una legge che tu stesso hai scritto?
È questo il punto. La sinistra ha tentato una manovra che assomiglia più a una confessione mal gestita, che a una proposta politica vera. Si può cambiare idea, certo. Si può anche dire “abbiamo sbagliato”. Ma non si può far finta che il Jobs Act l’abbia scritto qualcun altro.
E mentre la destra — Meloni in testa — boicottava il voto con un semplice “non andateci”, la sinistra si spaccava in mille comitati, senza riuscire a portare al voto nemmeno chi diceva di essere d’accordo.
