

Dove non si trovava solo un letto, ma un posto nel mondo
Il convitto non era solo un posto dove dormire. Per Matteo, divenne presto un piccolo villaggio, un mondo a parte abitato da ragazzi arrivati da ogni angolo del Paese, ognuno con la propria storia, le proprie paure, i propri sogni. A guidarli c’erano gli educatori — allora chiamati “istitutori” — studenti universitari poco più grandi di loro, ma con una testa già saldamente sulle spalle.
C’erano figure di ogni tipo. Alcuni bastava che aprissero bocca per farsi rispettare. Altri erano più silenziosi, ma dotati di una pazienza infinita. Matteo ricordava un allenatore di calcio che zittiva tutti con un solo sguardo e un maestro di musica inseparabile dalla sua fisarmonica. La suonava ovunque, anche nei corridoi. E a poco a poco, quella musica si fece strada anche dentro di lui.
All’inizio, Matteo lo osservava da lontano. Poi un giorno si avvicinò, timido. Sfiorò quei tasti come se temesse di romperli. All’inizio erano solo suoni incerti, goffi. Ma poi le dita cominciarono a muoversi da sole. Non era un talento naturale, ma sentiva che in quelle note c’era qualcosa che gli apparteneva. La fisarmonica divenne per lui una valvola di sfogo silenziosa. Un modo per parlare senza parole.
Al convitto si imparava molto, e non solo sui libri. Fu lì che Matteo scoprì gli scacchi — e il poker. Provò la prima sigaretta, di nascosto, con l’ansia negli occhi e il sorriso sulle labbra. Una bravata, forse, ma che a quell’età sembrava un gesto da adulti. Un piccolo rito di passaggio.
L’ambiente era sempre vivo, rumoroso. Tra partite improvvisate, prove musicali, gare di dialetti e risate fragorose, il tempo non si fermava mai. E in quel disordine, Matteo iniziò a sentirsi meno estraneo. Non era casa, no. Ma era qualcosa che ci si avvicinava: un dormitorio con un cuore.
Anche se mancava l’abbraccio della mamma e la cena calda fatta con amore, c’era sempre qualcuno: un amico, un fratello maggiore, anche solo un compagno con cui discutere. Ma c’era. E tanto bastava.
Col passare dei giorni, Matteo imparò ad abituarsi: ai letti tutti uguali, agli orari rigidi, al caos quotidiano di cento ragazzi che, come lui, cercavano un posto nel mondo. Il convitto non era casa. Ma per un po’, lo diventò davvero.
E a distanza di anni, Matteo sapeva che quel posto lo avrebbe ringraziato per sempre. Perché fu lì che cominciò a crescere. A confrontarsi con gli altri, con se stesso, con la solitudine e con la compagnia. Fu lì che iniziò, giorno dopo giorno, a diventare uomo.
Forse troppo presto.
Ma il convitto, con le sue regole, i suoi rumori, i suoi sorrisi rubati, fu il primo luogo dove Matteo iniziò a capirlo davvero.