Episodio 9 – Gressoney-La-Trinité: Un’Avventura tra le Montagne del Nord:

Tra piatti impeccabili, mance sudate e un urlo azzurro che unì tutti.

Il giorno tanto atteso delle destinazioni. In convitto si respirava un’aria di eccitazione mista a paura: sorrisi, abbracci, qualche sguardo basso. Ognuno sapeva che da quel momento sarebbe iniziata una nuova sfida, un capitolo che avrebbe lasciato un segno.

Il destino di Matteo lo portò in alto, tra le montagne maestose, verso un’esperienza che avrebbe scolpito la sua crescita. La sua meta era l’Hotel Busca Thedy di Gressoney-La-Trinité, un albergo storico ai piedi del Monte Rosa, simbolo di eleganza e tradizione.


Un salto in un altro mondo

Matteo e un compagno di convitto partirono insieme, le scarpe lucidate a specchio e il cuore che batteva forte. Due ragazzi pieni di sogni, pronti a dimostrare a sé stessi di che pasta erano fatti.

L’Hotel Busca Thedy, nato alla fine dell’Ottocento, era una meraviglia per l’epoca: bagni privati in camera, acqua corrente, sale da ballo sfavillanti, saloni imponenti e campi da tennis frequentati da nobili e ospiti internazionali.

Per Matteo, abituato ai ritmi semplici del suo paese abruzzese, Gressoney-La-Trinité era un mondo sospeso. Il silenzio delle montagne era quasi sacro, l’aria cristallina pizzicava le guance e il Monte Rosa lo osservava come un vecchio saggio. Gli chalet in legno, i balconi fioriti, la calma rarefatta: tutto parlava un linguaggio nuovo e misterioso.


L’arte della disciplina

Il lavoro all’hotel era una danza rigorosa, quasi militare: colazioni, pranzi, cene, senza margine di errore. Le divise dovevano essere impeccabili, i gesti silenziosi, le mani ferme.

Matteo osservava i colleghi più esperti, ne imitava i movimenti, ne rubava i segreti. Ogni giorno era un esame, ogni servizio un’occasione per crescere. A fine giornata, la stanchezza si infilava nelle ossa, ma anche una sottile soddisfazione si accendeva dentro di lui: stava imparando a cavarsela, a diventare indipendente, a farsi uomo.


Una notte da ricordare

Poi arrivò la sera che nessuno avrebbe mai dimenticato: la semifinale dei Mondiali del 1970, Italia-Germania 4-3.

Dopo cena, qualcuno sistemò una vecchia televisione in bianco e nero sul tavolo del salone principale. I clienti eleganti, i cuochi, i camerieri — tutti si riunirono sotto i lampadari di cristallo, seduti su poltrone di pelle, gli occhi incollati allo schermo tremolante.

Ogni gol era un boato, ogni salvataggio un sospiro collettivo. Quando Rivera segnò il quarto gol, il salone esplose: abbracci, grida, lacrime di gioia. In quell’istante, le differenze sociali sparirono. Non c’erano più camerieri o clienti, ricchi o umili: solo italiani uniti dallo stesso sogno.


Il sapore della conquista

Quella notte, tornando in camerata, Matteo capì di essere cambiato. Non era solo la gioia della vittoria: era la sensazione di aver trovato qualcosa di più grande.

Le mance guadagnate, sudate tra un piatto e l’altro, non erano più solo un extra. Erano un simbolo di indipendenza. Con quei soldi, Matteo poteva concedersi piccole gioie: una pizza fragrante, una birra fresca, una camicia nuova da indossare con orgoglio. Il resto lo mandava sempre a casa, per aiutare la famiglia.


Una vera scuola di vita

La stagione al Busca Thedy fu una lezione continua. Ogni turno era una prova, ogni difficoltà un passo verso la maturità. Quando tornò al convitto, Matteo non era più lo stesso ragazzo che aveva lasciato il suo paese. Portava con sé calli sulle mani, ma anche una nuova dignità, un senso di fierezza silenziosa.

Le montagne gli avevano insegnato la pazienza, la costanza, il valore di un lavoro ben fatto. Gressoney-La-Trinité gli aveva regalato un nuovo sguardo sul mondo e su sé stesso.

Il sogno dell’inverno

Spesso, prima di addormentarsi, immaginava l’inverno: il paese avvolto nella neve, i tetti bianchi, il silenzio ovattato. Vedeva sé stesso camminare tra i fiocchi, respirare quell’aria gelida e sentirsi libero come non mai. Sarebbe stata un’altra avventura, un’altra sfida da abbracciare.

Un orizzonte nuovo

Matteo chiuse gli occhi e rivide il salone illuminato, i volti sorridenti, i brindisi improvvisati. Sentì ancora il rumore dei passi in cucina, il profumo dei piatti caldi, la fatica che diventava orgoglio.

Capì che ogni sacrificio, ogni turno, ogni mancia stretta tra le mani erano stati mattoni di un edificio più grande: sé stesso.

Le montagne, alte e severe, non erano più un confine, ma un invito. Un invito a guardare oltre, a spingersi più in alto, a credere nella forza che aveva scoperto dentro di sé.

Mentre la corriera lo riportava verso il convitto, Matteo guardò il Monte Rosa illuminato dall’alba. E, in quel bagliore, vide un segnale silenzioso: le vette più difficili da scalare non sono sempre di roccia e neve, ma quelle che portiamo dentro.

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