
Nel nome della velocità e della produttività, abbiamo sacrificato uno dei riti più profondi e identitari della nostra cultura: il pasto condiviso. Le lunghe tavolate della domenica, le chiacchiere tra un piatto e l’altro, i pranzi con i colleghi che diventavano momenti di confronto e umanità… tutto questo sembra scomparire, rimpiazzato da “pranzi lampo” consumati in piedi, davanti a uno schermo o in solitudine.
Molti lo chiamano progresso. Io, con sincerità, lo vivo come un arretramento della società.
Perché non si tratta solo di cibo. Si tratta di relazioni, di tempo umano, di identità collettiva. Il pasto era (ed è ancora, dove resiste) un luogo di incontro, un’occasione per ascoltare, raccontare, rallentare. Per stare con gli altri, ma anche con sé stessi. Invece oggi mangiamo di fretta, spesso male, e quasi sempre soli. In nome di cosa? Dell’efficienza? Del “tempo risparmiato”? Ma tempo risparmiato per fare cosa, se nel frattempo perdiamo il senso della connessione?
Le tavolate non erano solo tradizione: erano cura, trasmissione culturale, comunità. Eliminandole, non guadagniamo tempo. Perdiamo qualità della vita.
Serve forse un nuovo sguardo: non nostalgico, ma consapevole. Riscoprire il valore del mangiare insieme. Rivendicare il diritto alla lentezza, almeno una volta al giorno. Ricordare che mangiare bene non è solo nutrirsi, ma vivere.