
Tra le radici e il futuro — Diario di un’estate che mi ha fatto crescere
Dopo Gressoney, mi concessi una breve vacanza.
Tornai in Abruzzo, a casa.
Pochi giorni, ma bastarono per rimettere in ordine certi pensieri che solo l’odore di casa sa sistemare.
Mamma mi aspettava con le mani piene e gli occhi lucidi.
La casa era la stessa, ma il silenzio sembrava più grande.
Ci sono assenze che non fanno rumore, ma le senti ovunque: in un piatto rimasto intatto, in una sedia vuota, nelle parole che non arrivano.
E anche se non ci dicevamo molto, ci eravamo vicini.
A modo nostro. In silenzio, ma con forza.
Ritrovai il paese, i vicoli, gli amici di sempre che mi chiedevano com’era la vita da cameriere.
Si rideva, si scherzava, ma sotto sotto sapevamo tutti che qualcosa era cambiato.
Mi sentivo diverso.
Forse non ancora un uomo, ma nemmeno più quel ragazzino partito l’anno prima.
Quei pochi giorni passarono veloci, come un bicchiere di vino buono: bevuto piano, ma che ti scalda dentro.
E quando arrivò il momento di ripartire, sentii che stavolta portavo casa con me.
Non era più solo un luogo: era diventata una radice dentro di me.
Mio fratello, il più piccolo, stava per iniziare la prima media.
Lo guardavo e pensavo: «Ma quanto cresce?»
Con i soldi guadagnati quell’estate, gli comprai tutto ciò che desiderava: quaderni, penne nuove, una cartella fiammante, persino una giacca che — per noi — sembrava un vestito da festa.

Mi bastava vedere il suo sorriso.
Quel sorriso valeva più di qualsiasi mancia.
Il resto dei soldi lo lasciai a casa. In silenzio.
Mamma capì.
Non disse nulla.
A casa nostra, le parole erano poche, ma i gesti parlavano forte.
E io volevo solo farle capire che non mi ero dimenticato da dove venivo.
Con le mance in tasca ripartii per Trento.
Questa volta da solo.
Mio zio non venne ad accompagnarmi.
E non ce n’era più bisogno.
Ero cresciuto.
Eccome.
Sul treno, seduto vicino al finestrino, non guardavo più solo fuori.
Guardavo anche dentro.
Sentivo che qualcosa stava cambiando.
Quella vita tra alberghi, collegi e stagioni non era più solo una prova: stava diventando una scelta.
E cominciava a starmi bene addosso.
Tornai in collegio per il secondo anno.
Avevo 15 anni.
Quindici anni… mamma mia.
Mi sembrava di aver vissuto un’estate intera in un solo respiro.
Avevo lasciato qualcosa dietro di me, ma avevo anche raccolto pezzi nuovi di me stesso.
Capivo che crescere non significa solo diventare più alti o più forti.
Crescere vuol dire imparare a portarsi dietro i silenzi, i sorrisi, le assenze.
Vuol dire scoprire che casa non è solo un posto dove torni, ma un posto che ti porti dentro, ovunque vai.
E mentre il treno correva, sentivo che non stavo solo tornando a scuola.
Stavo andando incontro al mio futuro, un passo alla volta.
Con le tasche piene di mance, e il cuore pieno di radici.