
L’inizio di qualcosa che non ha ancora un nome
Il ritorno in convitto, quell’anno, fu diverso da ogni altro.
L’anno prima Matteo era arrivato accompagnato da suo zio, con la valigia rigida e lo sguardo di chi non sapeva ancora cosa aspettarsi.
Ora, invece, tornava da solo.
Nessun adulto accanto, nessuna mano sulla spalla. Solo lui, i suoi passi, e un bagaglio pieno non solo di vestiti, ma di esperienze vere.
Le montagne di Gressoney gli erano rimaste addosso come un odore buono, uno di quelli che non se ne vanno nemmeno col tempo.
Era cresciuto, anche se aveva solo quindici anni.
Appena entrato nel cortile, dopo i saluti rapidi con educatori e compagni, Matteo si accorse subito che c’era qualcosa nell’aria.
Un fremito nuovo.
L’atmosfera era diversa: non si parlava solo delle estati appena finite, delle mance messe da parte, delle corse in mensa.
C’era un’energia che correva veloce, un entusiasmo che faceva brillare gli occhi di tutti.
La voce era chiara: il convitto avrebbe organizzato delle attività comuni con un altro istituto. Un convitto femminile.
La notizia si diffuse come una scintilla su paglia secca.
Per ragazzi cresciuti in un ambiente solo maschile, fatto di regole e abitudini, la sola idea di incontrare delle coetanee era un sogno.
L’altro convitto ospitava ragazze orfane, come loro, ma invece di corsi alberghieri seguivano ragioneria, magistrali, istituti commerciali.
Un mondo diverso, con profumi e ritmi nuovi, da scoprire.
Matteo, promosso l’anno precedente con una media del 9 (rovinata solo da quel 6 in educazione fisica che ancora lo faceva sorridere), si guadagnò subito un ruolo importante.
Grazie alla sua precisione e al rispetto che si era conquistato, venne scelto per organizzare il gruppo che avrebbe partecipato alle attività comuni.
Era pronto.
Decise persino di sospendere i suoi turni nei ristoranti del weekend. Le mance raccolte durante l’estate erano abbastanza, e ora voleva vivere questa novità fino in fondo.
Senza distrazioni.
Con curiosità.
E forse anche con un po’ di speranza.
La prima uscita si svolse nel collegio femminile: attività culturali, giochi di gruppo, una merenda condivisa.
Un pretesto — lo capirono tutti — per far incontrare due mondi che si erano sempre immaginati solo da lontano.
Fu lì che Matteo le sentì.
Due voci leggere, ritmate, un suono che riconobbe all’istante.
Si fermò.
Ascoltò meglio.
Quel dialetto… era inconfondibile.

Durante l’estate, Matteo aveva lavorato con molti cuochi, e due di loro venivano proprio dalla provincia di Bergamo.
Parlavano sempre in dialetto, anche mentre sminuzzavano verdure, spadellavano o urlavano ordini in cucina.
Tra un piatto e l’altro, tra un rimprovero e una battuta, Matteo aveva imparato a riconoscere quella cadenza veloce, cantilenante, che ora gli esplose nelle orecchie come un richiamo.
Si avvicinò con un sorriso appena accennato e disse, quasi come un segreto:
«Chei de Bèrghem…»
Le due ragazze si girarono subito.
La più grande lo guardò un attimo, poi scoppiò a ridere.
«Ci hai riconosciute?»
«Facile,» rispose lui, «quella cadenza non si scorda.»
Elena ed Eleonora.
Sorelle.
Elena, la maggiore, frequentava il terzo anno delle magistrali. Alta, capelli castani mossi, occhi profondi e curiosi. Parlava con sicurezza, come chi è abituata a tenere la scena.
Eleonora, invece, era al primo anno. Più timida, con una voce sottile e gesti delicati, ma uno sguardo limpido che diceva molto più delle parole.
Passarono gran parte del pomeriggio insieme, circondati dagli altri ragazzi e ragazze.
Si rideva, si parlava di cose leggere, si cercavano pretesti per stare vicini, per capirsi con un cenno o una battuta.
Eppure Matteo percepiva che quella leggerezza aveva un sapore diverso.
Non era come con Maria, a Gressoney.
Là era stato intimo, silenzioso, un legame fatto più di respiri che di parole.
Qui, invece, tutto era più sociale, più giocato. Una danza di sguardi e battute, un gioco di ruoli nuovo, forse più vero per la loro età.
Matteo lo viveva con curiosità, ma anche con un rispetto silenzioso, quasi a non volerlo rovinare.
Quando le attività finirono, Matteo si avvicinò alle due sorelle.
Nessun discorso lungo, nessun addio drammatico. Solo un saluto semplice, educato.
«È stato bello conoscervi. Magari ci si rivede.»
Un sorriso, uno sguardo d’intesa.
E poi ognuno per la sua strada.
Quella sera, tornando in convitto, Matteo camminava piano. Non cercava compagnia, non parlava con nessuno.
Dentro di lui sentiva un’energia nuova, qualcosa che non aveva ancora un nome ma che cresceva, si faceva spazio.
Non era solo attrazione, né solo curiosità.
Era come se, incontro dopo incontro, parola dopo parola, la sua mappa del mondo si stesse allargando.
E lui, pur così giovane, sentiva di stare tracciando con pazienza la sua strada.
Quando si sdraiò sul letto, fissò il soffitto a lungo.
Risentiva l’eco delle voci, la musicalità del dialetto, le risate.
Capì che, forse, tutto questo era l’inizio di qualcosa di più grande.
Qualcosa che un giorno avrebbe saputo raccontare, dare un nome, riconoscere come parte di sé.
E mentre il sonno scendeva piano, Matteo sorrise.
Perché anche se non sapeva esattamente dove lo avrebbero portato quei passi, sentiva che valeva la pena seguirli..