Episodio 17 – Un ritorno chiamato Eleonora

E l’abbraccio che ha sciolto ogni distanza
Il ritorno a Trento fu lieve come un respiro.
Matteo ed Elena sedevano uno accanto all’altra, nel pullman che scendeva lentamente verso la valle.
Conversavano senza fretta, con quella complicità tranquilla che nasce tra due persone che hanno condiviso un pezzo di strada.
Ridevano di episodi buffi, ricordavano clienti stravaganti, parlavano del futuro.
Quando Matteo le disse che prima di rientrare al suo convitto sarebbe passato a salutare Eleonora, Elena sorrise.
Un sorriso sobrio, quasi impercettibile, ma pieno di comprensione.
Il sorriso di chi sa — e approva.
Appena scesi dal pullman, Eleonora era lì.
Non me lo aspettavo.
Non me lo meritavo, forse.
Ma c’era.
Salutò sua sorella con un abbraccio rapido. Poi i suoi occhi cercarono i miei.
Non dissi nulla.
Feci un passo avanti e la strinsi forte.
Un abbraccio pieno, totale, che racchiudeva tutte le attese, tutte le parole mai dette.
La sentii respirare contro il mio collo, e capii che anche lei era rimasta in apnea per settimane.
Fu un momento semplice, ma immenso.
Un abbraccio che sciolse ogni distanza, ogni dubbio.
Un gesto che parlava di mancanza, di desiderio, di promesse senza condizioni.
Quando ci staccammo, Eleonora mi guardò negli occhi.
Aveva uno sguardo nuovo: sereno, deciso.
Nessuna domanda. Nessuna pretesa.
— «Camminiamo un po’?», dissi.
Uscimmo dal piazzale.
La città era la stessa, ma sembrava diversa.
Parlammo poco.
Solo cose leggere, come se non volessimo rovinare quella pienezza con troppe parole.
Prima di salutarla, lei si fermò, si voltò verso di me e mi disse:
— «Non farmi aspettare troppo.»
Le presi la mano. Le sfiorai le dita.
Poi, lentamente, ci separammo.
Tornai al mio convitto a Povo.
Sulla strada, tutto mi sembrava più chiaro.
Persino l’aria fredda mi pareva amica.
Mi fermai a parlare un momento con l’educatore.
Scambiammo qualche parola sul rientro, sulla stagione appena finita.
Lui mi guardava con quella saggezza discreta di chi sa osservare senza giudicare.
Poi varcai la soglia.
Il solito odore di cera, il silenzio dei corridoi, la luce bassa sulle scale.
Tutto era uguale.
Tranne me.
Ero rientrato nel mondo delle abitudini, delle lezioni, delle camerate.
Ma dentro portavo una pace nuova.
Un senso di gratitudine che non riuscivo a spiegare.
Ero innamorato.
Non di un sogno, ma di una persona vera.
Di una voce, di un sorriso, di una presenza.
Con Eleonora non cercavo distrazioni.
Cercavo casa.
I giorni che seguirono furono semplici, ma intensi.
Ogni momento vissuto con lei aveva il sapore di qualcosa che andava custodito.
Non ci dicevamo tutto, ma ci capivamo al volo.
Eppure, dentro di me, sapevo.
Sapevo che il tempo non si può fermare.
Che a fine maggio sarebbe arrivato qualcosa di più difficile.
Un addio che fingevo di non prevedere.
Non ne parlai mai.
Ci godemmo quell’inverno fino in fondo.
Lo trattammo come un dono.
Come un segreto da tenere stretto tra le mani.
E in fondo, forse è così che si vive l’amore, quando si ha quindici anni:
con il cuore pieno,
e il fiato sospeso.