
In Italia si parla spesso di meritocrazia. È il vessillo con cui tanti — politici, intellettuali, giornalisti — amano sventolare la loro superiorità morale. Si invoca la meritocrazia per denunciare il clientelismo, i favoritismi, i concorsi truccati. Ma quando la meritocrazia inizia a sfiorare i figli dei “giusti”, allora diventa improvvisamente un concetto relativo. E la coerenza evapora.
L’ipocrisia trasversale
Da sempre la sinistra italiana accusa la destra di alimentare un sistema di potere familistico, fatto di nomine opache e raccomandazioni. Ogni volta che un figlio di un politico conservatore ottiene un incarico pubblico, la stampa progressista grida al nepotismo. Ma quando a beneficiarne sono i rampolli della sinistra, cala il silenzio. O peggio: si costruisce la narrativa del “merito ereditato”.
Giulia D’Alema, Eugenio Bersani, Giovanni Napolitano, Antonio Prodi: tutti professionisti, certo. Ma tutti con un cognome pesante che li ha agevolati nell’entrare — o rimanere — nei circuiti dell’influenza pubblica. Curriculum e capacità a parte, il contesto ha fatto la differenza. Eppure, in questi casi, nessuno parla di “sistema”.
Il doppio standard morale
Il punto non è che questi figli non debbano lavorare. È ovvio che abbiano diritto a fare carriera. Il problema è il doppio standard. Quando il “cognome giusto” aiuta a destra, si denuncia l’ingiustizia. Quando succede a sinistra, si minimizza, si razionalizza, si costruisce una retorica di continuità “culturale” o “familiare”.
È un meccanismo tipicamente italiano, ma particolarmente raffinato nei salotti della sinistra: giustificare ciò che si condanna negli altri, aggrappandosi a eccezioni, valori personali o storie di militanza. Così, la meritocrazia resta un principio nobile… ma solo per i figli degli altri.
Merito o rendita ereditaria?
Il paradosso è evidente. In un Paese che dovrebbe premiare talento e impegno, la corsia preferenziale data a chi nasce con un certo cognome resta intatta. E in questo, destra e sinistra sono molto più simili di quanto vogliano ammettere.
La domanda scomoda resta sospesa: la meritocrazia è un valore universale o solo uno strumento retorico, da usare finché non tocca i propri figli?
Finché non si risponderà onestamente a questa domanda, l’Italia continuerà a confondere i “figli di papà” con i veri talenti. E a perdere i migliori per strada. Meditate………………..