
In un Paese dove lo scandalo è ormai diventato routine, quello che emerge da Milano è solo l’ultimo tassello di un mosaico inquietante. Tangenti, incarichi truccati, favori sotto banco, relazioni opache tra pubblico e privato. E il tutto, spesso, condito da una colpevole indifferenza istituzionale. Ma la vera questione è che non ci stupiamo più. E questo dovrebbe preoccuparci più di qualunque avviso di garanzia.
Le inchieste ci mostrano che il marcio c’è ovunque, non risparmia schieramenti. È a destra, è a sinistra, è nei partiti di governo e in quelli d’opposizione. Perché, in fondo, non è una questione ideologica. È un sistema. Un modo di fare, consolidato, trasversale. Un linguaggio comune che unisce insospettabili rivali politici sotto la stessa bandiera non dichiarata: quella del potere a tutti i costi.
La reazione? Sempre la stessa. Gli uni puntano il dito sugli altri, accusandoli di essere la vera “casta”. Si grida allo scandalo, si promettono pulizie radicali, si invocano dimissioni con toni più teatrali che sinceri. Ma passata la tempesta mediatica, tutto si spegne. Nessuno molla la poltrona. Anzi, spesso chi è coinvolto viene addirittura ricandidato, promosso, riciclato. Il pubblico si indigna, poi dimentica. E il gioco può ricominciare.
Il problema, dunque, non è solo chi sbaglia. Il vero problema è chi permette che tutto continui, come se niente fosse. Le istituzioni che fanno orecchie da mercante. I partiti che coprono i propri uomini. La stampa che talvolta si limita al clamore, ma poi non approfondisce. E noi cittadini, che troppo spesso ci limitiamo a scuotere la testa e dire: “Tanto sono tutti uguali.”
Ed è proprio lì che vince il vero partito trasversale: il partito della pagnotta. Quello senza ideologia, senza coerenza, ma con un unico obiettivo: stare dentro il sistema, costi quel che costi. È il partito di chi usa la politica come un mestiere, non come un servizio. Di chi pensa a garantirsi uno stipendio e una rete di potere, non a migliorare il Paese. Un partito che non compare nelle urne, ma che governa davvero.
Allora viene da chiedersi: si può ancora cambiare qualcosa? O siamo ormai condannati a convivere con questa mediocrità strutturale?
La risposta, per quanto difficile, esiste. Ma non è comoda, né rapida. Serve cultura civica, serve memoria, serve un’educazione alla legalità che parta dalle scuole e arrivi fino alle stanze dei bottoni. Serve una cittadinanza attiva, vigile, severa. Serve anche una nuova classe dirigente, capace non solo di “fare il cambiamento” ma di esserlo.
E soprattutto, serve pretendere la dignità della politica. Perché la politica non è sporca di per sé: la sporcano certi uomini e donne che la occupano. E restituirle onore è possibile, ma richiede un’assunzione collettiva di responsabilità. Nessuno escluso.
Finché accetteremo che il potere si autodifenda, che le indagini vengano strumentalizzate, che la corruzione venga derubricata a “errore di valutazione”, nulla cambierà. Ma se cominciamo a pretendere serietà, coerenza e trasparenza, non sarà più sufficiente un’inchiesta a fare notizia. Sarà la normalità a diventare finalmente, straordinaria.