Le radici tagliate


Emigrare non è solo partire: è lasciare indietro un mondo che non ha saputo trattenerti.

Nel piccolo paese in provincia di Avellino dove Caterina è cresciuta, il bar ha chiuso. Il medico di base va in pensione tra sei mesi, e nessuno ha risposto al bando per sostituirlo. Le scuole sono mezze vuote. I ragazzi, quelli bravi, se ne sono andati quasi tutti. Qualcuno a Berlino, qualcuno a Lione, qualcuno più lontano. Restano i genitori a sfogliare videochiamate come fossero lettere dal fronte.

Caterina ora lavora in una startup di biotecnologie a Toronto. “Quando mi chiedono da dove vengo, dico: da un posto che ti insegna a sopravvivere, ma non a sognare.”
È partita a 24 anni, con una laurea, un dottorato in corso e una borsa di studio che scadeva troppo presto. All’inizio diceva: “Torno tra due anni”. Poi due sono diventati cinque. Ora non fissa più una data. Non è più una pausa, è una vita nuova.

Chi parte non sempre lo fa con rabbia. Spesso lo fa con dolore. Perché emigrare non è solo prendere un aereo, è decidere di non aspettare più.
È rendersi conto che le proprie radici fanno più male che bene. Che casa tua ti ama, ma non ti accoglie. Che l’Italia ti dice: “rimani”, ma poi ti mette alla prova ogni giorno, come se dovessi dimostrare continuamente di meritare dignità.

Ricostruirsi altrove non è facile. Significa rinunciare a parte della propria identità. Ricominciare da zero in un Paese che non conosci, in una lingua che non è la tua, senza la rete invisibile che ti tiene su nei momenti difficili. È un atto di forza, ma anche di rinuncia. Costruisci nuove abitudini, nuovi affetti, un nuovo senso di “casa” che però, almeno all’inizio, ha sempre qualcosa di provvisorio.

E intanto, chi resta indietro paga il prezzo invisibile della partenza. I comuni si svuotano. Le università perdono allievi brillanti. Le famiglie si spezzano. I nonni non vedono crescere i nipoti, i genitori invecchiano da soli. I bambini nascono lontani, in Paesi che li registrano come “canadesi”, “tedeschi”, “olandesi” — anche se nelle loro case si continua a cucinare pasta e a parlare italiano nei giorni di festa.

Le conseguenze non sono solo affettive: sono sistemiche. Dove mancano medici, si allungano le liste d’attesa. Dove mancano insegnanti, si riduce la qualità dell’istruzione. Dove mancano giovani, crollano le nascite, si chiudono le scuole, muoiono i quartieri.

Ma forse la perdita più profonda è culturale. Perché quando il talento se ne va, non perdi solo una persona: perdi anche la sua energia, il suo sguardo, la sua capacità di innovare, di costruire, di credere.
Perdi il futuro.

E chi resta? Spesso accusa. Dice: “Se ne vanno tutti”, come fosse un tradimento. Ma il tradimento, forse, è venuto prima: da un Paese che ti fa sentire di troppo, proprio quando avresti più voglia di restare.

Ogni partenza è una storia d’amore finita male. Ogni radice tagliata è un luogo che si svuota un po’.
E il silenzio con cui l’Italia accetta tutto questo è il rumore più assordante.

I nomi e i luoghi citati in questo capitolo sono fittizi. Ogni somiglianza con persone o situazioni reali è puramente casuale – o tristemente comune.