“Ce lo spiega lui: guida pratica al radical chic che tutto sa (ma niente capisce)”

Sottotitolo:

Dal brunch al dibattito geopolitico in tre spritz – viaggio nell’universo parallelo dei tuttologi da salotto


C’è una categoria di persone che non ha bisogno di studiare, informarsi o — Dio ce ne scampi — dubitare. No, loro sanno. Punto. Hanno letto un articolo e mezzo su Internazionale nel 2011, hanno fatto un Erasmus traumatico a Berlino e da allora dettano la linea politica, culturale e culinaria della nazione. Sono i radical chic. E sono ovunque.

Seduti al tavolino di un bistrot con tovagliette di lino grezzo, discutono animatamente di come risolvere il conflitto in Medio Oriente mentre ordinano “due hummus e un’acqua frizzante filtrata a chilometro zero”. Lo sguardo è grave, la voce pacata, il tono sempre un po’ condiscendente, come a dire: “Tu non puoi capire, non sei stato a Oaxaca in aprile.”

Vivono tra librerie indipendenti, festival del documentario al terzo sottoscala e cene bio-vegan-zen dove, tra un boccone di seitan e una citazione di Pasolini (che non hanno mai letto), si decidono le sorti del mondo. O meglio, si giudica chi non la pensa come loro.

“Hai detto che non ti convince il Green Deal europeo? Ah… sei di destra, quindi. Che peccato, ti stimavo.”

Ogni frase è un test di purezza. Ogni opinione, una trappola. Provate a dire che non avete visto l’ultimo documentario afghano in versione originale con sottotitoli in finlandese: vi guarderanno come se aveste appena confessato di bruciare plastica nel camino.

Sono convinti di essere paladini del progresso, ma appena gli parli di periferie vere, scuole vere, ospedali veri, ti rispondono con un silenzio imbarazzato o una battuta su quanto sono boomer i problemi reali. Loro preferiscono l’attivismo digitale, possibilmente da un MacBook da 3000 euro mentre sorseggiano kombucha equosolidale.

Il loro habitat naturale?

– Librerie che vendono solo saggi che nessuno legge.
– Festival con titoli tipo “Decolonizzare il gelato: l’identità nel dessert postmoderno”.
– I commenti sotto i post di Roberto Saviano.
– Le stories in cui piangono per la Palestina e poi vanno in vacanza a Tel Aviv (“per capire meglio”).

Il loro lessico base include:

  • Complesso di superiorità morale (ma detto agli altri)”
  • Narrativa tossica
  • Ti invito a riflettere
  • Leggiti qualcosa, poi ne riparliamo
  • E comunque io ho amici trans/non-binari/indigeni e loro non la pensano come te.

Ma attenzione: il radical chic non sbaglia mai.

Se si contraddice è perché “la realtà è complessa”; se sbaglia un nome, è “un lapsus sintomatico”; se ti insulta, è “per scuoterti”. Quando li metti di fronte ai fatti, ti risponderanno con un lungo sproloquio sul potere decostruente del linguaggio. Ma senza dire nulla. È un’arte, in fondo.


In conclusione, il radical chic è un po’ come la panna nella carbonara: ci finisce dentro senza motivo, rovina tutto, ma ti dice che è così che la fanno a Parigi. E se non sei d’accordo, sei un populista reazionario.


Postilla:

Se leggendo ti sei sentito offeso, tranquillo: era ironia.
Se non ti sei sentito offeso, tranquillo: non era per te.
Se ti sei sentito toccato, tranquillo: forse sei radical chic.