Quando la montagna non partorisce più

La montagna non partorisce più.
Non è un modo di dire, è un dato anagrafico.
Ci sono paesi dove, in un anno intero, nasce un solo bambino.
Altri in cui non nasce nessuno.
E non parliamo di casi isolati: decine, centinaia di comuni si spengono in silenzio.
Culle vuote, giovani in fuga, scuole chiuse, oratori spenti, negozi serrati.
Una morte lenta, dolce, senza rumore. Ma con tutte le conseguenze.
Eppure, ogni volta che qualcuno lo dice — magari con garbo, magari con una domanda —
la risposta è sempre la stessa:
“Parlate senza conoscere.”
“Non sapete cosa vuol dire amministrare qui.”
“Qui si fa quel che si può.”
Già.
Quel che si può.
Ma cosa si è fatto, davvero?
Ci sono progetti per attrarre giovani coppie?
Politiche per il rientro?
Reti locali, bandi europei, scuole vive, spazi culturali?
O solo resistenza passiva, che si trasforma in orgoglio offeso appena qualcuno osa parlare?
Governare territori fragili è difficile, certo.
Ma offendersi quando qualcuno solleva un problema è ancora più pericoloso.
È un modo elegante per non fare i conti con la realtà.
Perché c’è una cosa che fa ancora più paura dei numeri:
il rifiuto di guardarli.
E no, la fierezza da sola non riempie le culle.
Non ferma l’esodo.
Non scalda le case.
Non prepara il futuro.
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