
“Nei borghi, a volte, il confine più grande non è la montagna, ma il campanile.”
Quando la montagna non fa squadra, perde pezzi di sé.
C’è un filo sottile che unisce i paesi di montagna.
A volte è una strada tortuosa, altre una festa patronale, altre ancora un ricordo condiviso di neve fino al ginocchio.
Ma questo filo, negli anni, si è assottigliato.
Ognuno ha guardato al proprio campanile, come se bastasse difendere i confini del proprio comune per salvare anche la sua gente.
Non è così.
Montenerodomo, come tanti altri borghi d’altura, non può farcela da solo.
Lo sanno i sindaci, lo sanno i cittadini, lo sanno anche i ragazzi che ogni mattina scendono a valle per andare a scuola.
Eppure, le occasioni di lavorare insieme sono state poche, frammentate, a volte ostacolate da orgogli antichi o rivalità che oggi non hanno più senso.
L’unione dei borghi non è un’idea romantica: è una necessità pratica.
Mettere in comune scuole, servizi sanitari, trasporti, eventi culturali.
Creare un unico calendario di appuntamenti, una rete di volontariato, un sistema condiviso di promozione turistica.
Far capire, a chi decide da lontano, che qui non ci sono dieci paesi isolati, ma una comunità unica che chiede di essere vista e sostenuta.
Chi resta in montagna ha già scelto la strada più difficile: la resistenza quotidiana.
E quella resistenza ha più forza se ha più voci.
Perché nessuno si salva da solo. E nessun paese resiste da solo.
Forse il primo passo non è chiedere aiuto, ma bussare alla porta del borgo vicino.
Sedersi a un tavolo e parlare.
Per scoprire che la stessa storia di silenzio e partenze è anche la nostra.
E che, messi insieme, quei fili sottili possono ancora tessere una trama solida, abbastanza forte da trattenere chi oggi è tentato di andarsene.