Sopra la scottatura, acqua bollente

“sopr le cuott acca vulleit”

Case frutto di sacrifici, invendute anche quando costano meno di un sogno

“Sono nato qui, sul tetto d’Abruzzo.
Ogni agosto torno, e conto i passi di chi se n’è andato e il coraggio di chi resta.”

C’è un dolore silenzioso che attraversa molti paesi di montagna.
Non è il vento freddo di gennaio, né la strada ghiacciata all’alba.
È vedere le case – quelle costruite pietra su pietra dai nostri nonni e bisnonni – perdere valore fino a diventare un peso, invece che un’eredità.

Ogni pietra racconta una storia:
chi l’ha posata tornava dal lavoro nei campi, o dopo ore alla fornace, o da un inverno passato in Svizzera.
Le finestre venivano messe da artigiani del paese, i portoni scolpiti a mano.
Quelle case erano il simbolo di una conquista: un tetto sicuro per la famiglia, un punto fermo a cui tornare.

Oggi, invece, lo spopolamento le ha svuotate.
Molte restano chiuse per mesi, altre cadono a pezzi.
E quando la necessità bussa – una malattia, un trasloco, una spesa improvvisa – vengono messe in vendita a prezzi che fanno male al cuore.
Come si dice in dialetto: “sopr le cuott acca vulleit” — sopra la scottatura, acqua bollente.
Il colpo di perdere la casa, e in più il prezzo che non rende giustizia al sacrificio di chi l’ha costruita.

Eppure, anche in svendita, molte di queste case non trovano acquirenti.
Troppo lontane dai centri, troppo fredde d’inverno, troppo costose da ristrutturare.
E, a rendere ancora più difficile la situazione, si aggiunge un peso che pochi vogliono portare: l’IMU.
Negli ultimi anni, l’aumento di questa imposta – applicata anche a immobili che spesso non producono alcun reddito – ha contribuito in modo sostanziale ad aggravare il disagio.
Per chi eredita una casa in montagna e non può abitarla stabilmente, il rischio è di dover pagare tasse su un bene che nessuno vuole comprare, e che magari non si riesce nemmeno a mantenere.

Restano lì, con il cartello “vendesi” che ingiallisce alla finestra, come una ferita aperta nel cuore del paese.

C’è chi compra per ristrutturare e venire solo in estate, e chi acquista per speculare, lasciando vuoto per il resto dell’anno.
E così il paese non si riempie: cambia solo padrone.

La vera ricchezza di questi borghi non sta solo nelle pietre, ma in ciò che rappresentano.
Svendere le case significa svendere pezzi di storia, di memoria, di identità.
E quando una porta si chiude e resta muta per anni, non è solo una casa che si spegne: è un frammento di comunità che scompare.

🌱 Una possibile via
Forse si… forse si…
Per fermare questa emorragia silenziosa, qualche strada ci sarebbe.
Ma non spetta a me decidere: non ho strumenti, né potere per agire.
Il mio compito è un altro — provare a sensibilizzare, a far riflettere, a dare voce alla popolazione di tutti i borghi di montagna.

Forse si potrebbe immaginare un consorzio comunale o intercomunale che acquisti le case svendute e le destini a chi vuole viverci stabilmente o avviare un’attività sul territorio.
Forse si potrebbe pensare a un “patto per il borgo” che favorisca la vendita a residenti o a chi si impegna a restare per almeno qualche anno.
Forse si potrebbero creare incentivi fiscali per chi ristruttura e abita la casa tutto l’anno, non solo d’estate.

Non è solo una questione di economia immobiliare: è protezione del patrimonio umano e storico.
Perché un borgo senza case vive ancora, ma un borgo senza case abitate è già un ricordo.

A tutti i montanari come me: se vi piace questo articolo, oltre al “like” — che fa sempre piacere — vi chiedo di condividerlo.
Perché chi scrive non ha la forza di cambiare le cose, ma ha il potere di sensibilizzare.
E a volte, la consapevolezza è il primo passo verso il cambiamento.

📚 Rubrica Fuga Silenziosa → https://sottoilcielo.net/category/fuga-silenziosa/