

Panchine e Arcobaleni – Quando il decoro batte la realtà
Pensieri Scomposti
In un paesino di montagna, ieri, si è celebrata un’inaugurazione in grande stile: due nuove panchine, una arcobaleno e una rossa, presentate alla cittadinanza con tanto di rinfresco e musica di sottofondo. Un pomeriggio con aria di festa, sorrisi, bicchieri alzati e qualche foto da condividere.
Per carità, nessuno mette in discussione il valore dei simboli: la panchina rossa per ricordare le vittime di femminicidio, la panchina arcobaleno per celebrare i diritti e l’inclusione. Gesti che in sé racchiudono messaggi importanti, universali, da sostenere sempre. Il problema, semmai, sta altrove: quando i simboli diventano l’unico terreno d’azione, mentre la realtà quotidiana resta fuori scena.
Oggi il paese conta sempre meno abitanti. Le case si vendono a prezzi che non coprono neanche le spese di un motorino usato. L’IMU resta alta come se fossimo a Piazza San Babila, e non certo per finanziare chissà quali servizi. Lo spopolamento non è una previsione futura, è un fatto: basta farsi un giro per le vie del centro per sentire il rumore del silenzio.
Eppure, la priorità sembra essere colorare legno e organizzare inaugurazioni. Nel frattempo, se un disabile vuole andare in Comune, deve farsi accompagnare. Non esiste un percorso autonomo per raggiungere la farmacia o il cimitero. E se si ammala? Non resta che aspettare che il medico faccia visita a domicilio — perché l’ambulatorio è difficile da raggiungere e, comunque, il dottore è presente solo a giorni alterni.
Però, adesso, si può sempre andare a sedersi su una panchina colorata a guardare il panorama… magari pensando a come arrivarci.
Lo spopolamento avanza, i servizi si assottigliano, ma la priorità è chiara: verniciare legno, allestire buffet e far partire la musica. Un pomeriggio allegro, un brindisi, qualche foto da condividere sui social, e per qualche ora ci si dimentica delle difficoltà quotidiane.
E così si assiste a un paradosso che vale la pena sottolineare: più i servizi scompaiono, più aumentano i gesti simbolici. Come se la comunità si tenesse in piedi con fotografie e slogan, mentre la vita reale perde pezzi. È come mettere un fiocco colorato su una porta che non si apre: fa scena, ma resta chiusa.
Non è questione di essere contro le panchine o contro i messaggi che portano. Si tratta di chiedere che il bello e il giusto non siano usati come tappeto sotto cui nascondere il resto. Perché il resto, purtroppo, non è bello e non è giusto.
I dati demografici parlano chiaro: poche centinaia di abitanti reali, età media in aumento, servizi sempre più rari. Chi resta deve fare i conti con la distanza da qualsiasi struttura, con la scarsità di opportunità lavorative e con la sensazione che ogni giorno il futuro si sposti un po’ più in là… lontano dal paese.
Eppure, la macchina celebrativa funziona. Per un pomeriggio, ci si dimentica delle difficoltà. Si brinda, si sorride davanti all’obiettivo, si posta la foto sui social. Si raccolgono “mi piace” e commenti entusiasti di chi, magari, a Montenerodomo non ci mette piede da vent’anni.
Poi, il giorno dopo, il medico non c’è. Il disabile resta a casa. La farmacia chiude alle ore stabilite e, se serve qualcosa fuori orario, bisogna scendere in valle. E la panchina resta lì, colorata, perfetta… ma vuota.
Questa è la distanza tra la retorica e la vita reale: un abisso che si riempie di gesti simbolici, lasciando però vuoti i bisogni concreti.
E allora, avanti pure con i simboli, ma insieme a soluzioni concrete. Perché la memoria si onora anche garantendo che chi vive oggi possa farlo dignitosamente. E i diritti si celebrano non solo con i colori, ma con la possibilità di esercitarli.
Se così non sarà, presto le panchine diventeranno il simbolo involontario di ciò che è rimasto: una struttura solida, ben visibile, ma senza nessuno seduto sopra. E il paese rischia di trasformarsi in un museo a cielo aperto della retorica, dove il visitatore potrà passeggiare tra sedute di ogni colore, guardarsi intorno… e chiedersi dove siano finiti tutti.
Perché qui non servono altre panchine. Servono le persone per riempirle.