
In Abruzzo, nel cuore della valle del Sangro, c’è un borgo che porta un nome pesante: Bomba. Piccolo, fragile, segnato dall’abbandono come tanti altri dell’Appennino. Case chiuse, giovani che partono, vecchi che resistono.
Eppure, su questo paese che lotta per sopravvivere, piomba un progetto che sembra arrivare da un mondo parallelo: un impianto di estrazione e liquefazione del gas naturale.
La favola della multinazionale
La società proponente, LNEnergy, la presenta come Small-Scale LNG Plant. Parole inglesi, lucide brochure, promesse di “sicurezza energetica nazionale”.
Ma la sostanza è un’altra: trivellare in un territorio dove il catasto frane segna 88 instabilità attive, a due passi da una diga già sorvegliata speciale.
Dietro le slide patinate, resta il solito schema: il profitto a loro, i rischi alla comunità locale.
Il no della Regione
Il Comitato VIA dell’Abruzzo, il 10 luglio 2025, ha detto no.
Motivazioni chiare: rischio per la diga di Bomba, terreno instabile, incompatibilità con i vincoli ambientali. Non sono opinioni, ma fatti.
Eppure chi porta avanti il progetto finge che basti un timbro romano per cancellare tutto questo. Come se la geologia e la vita delle persone fossero dettagli secondari rispetto a un grafico Excel.
Roma e i giochi di equilibrio
A Roma il progetto resta in piedi, infilato nel PNIEC. Si discute nei ministeri, lontani dai vicoli deserti del borgo.
Qui sta l’assurdo: un paese che rischia di sparire per mancanza di servizi diventa improvvisamente “strategico” solo quando c’è da bucare il suo sottosuolo.
E la popolazione?
Il paese non è rimasto a guardare. Da anni si susseguono riunioni, assemblee pubbliche, controriunioni. Bomba ha già detto chiaramente il suo no.
Un no che non nasce dall’ideologia, ma dalla conoscenza concreta del territorio: chi vive qui sa cosa significa convivere con frane, dighe, terreni instabili.
Il paradosso è che una comunità che lotta ogni giorno per mantenere aperta una scuola o un ambulatorio deve anche difendersi da progetti miliardari calati dall’alto.
Ed è proprio questo che rende ancora più ingiusto il copione: la popolazione locale deve faticare due volte — per sopravvivere e per resistere.
E i politici di turno?
Qui casca l’asino.
Per un taglio del nastro o una strada asfaltata di fretta prima della festa patronale, i politici si presentano in prima fila, fascia tricolore e sorrisi pronti.
Ma quando c’è da difendere davvero un territorio fragile, il silenzio è bipartisan. Destra, sinistra, centro: cambia il colore delle bandiere, non l’inerzia.
E così capita che qualcuno arrivi perfino a intestarsi, a nome del proprio partito, le Grotte del Cavallone. Un patrimonio naturale millenario trasformato in medaglietta politica.
Eppure, se la stessa prontezza fosse usata per intestarsi anche la fine dell’odissea del gas a Bomba, forse i cittadini avrebbero un motivo in più per credere nella politica.
Ma no: le grotte si possono vantare, i problemi si preferisce rinviarli.
Lo scaricabarile della politica
C’è poi un altro spettacolo che i cittadini di Bomba conoscono bene: quello dello scaricabarile istituzionale.
“Non tocca a me, è competenza di un altro ufficio.”
“Io sono andato, ma decide il capo di gabinetto.”
Un fiume di parole che non sposta nulla, se non la responsabilità.
Così, mentre la multinazionale avanza compatta con progetti e capitali, la politica si frantuma in mille scuse burocratiche, in un linguaggio tecnico che serve solo a disorientare.
E alla fine chi vive qui resta con la sensazione più amara: che i palazzi lontani parlino una lingua che non ha nulla a che fare con la vita reale delle comunità.
Il nodo vero: che futuro per i borghi?
Ha senso parlare di estrazioni e impianti miliardari in territori che non hanno nemmeno più un asilo o un medico di base?
Il vero investimento, per Bomba e per tanti paesi come questo, non si misura in metri cubi di gas, ma in scuole, strade sicure, lavoro dignitoso.
Riflessione finale
La vicenda di Bomba non è solo una questione tecnica di geologia o di energia. È lo specchio di un’Italia che si ricorda dei suoi borghi soltanto per sfruttarli, e che nei palazzi della politica preferisce girarsi dall’altra parte.
Qui c’è un paese che resiste con riunioni, proteste e un no chiaro.
C’è una multinazionale che calcola dividendi lontano da queste montagne.
E ci sono politici che, veloci ad asfaltare un marciapiede per la processione, diventano improvvisamente immobili quando c’è da difendere la vita delle comunità.
Alla fine resta una domanda che nessun piano energetico potrà cancellare:
vogliamo borghi svuotati ma ricchi di trivelle, o comunità vive capaci di guardare al futuro?
Perché questo non è un capitolo chiuso. È una partita ancora aperta, che riguarda non solo Bomba ma l’intero Abruzzo e, più in generale, il destino dei borghi italiani.
E l’unico modo per non perderla è mantenere viva una discussione permanente, e una pressione continua su chi, con una firma, potrebbe azzerare questo progetto.
E se davvero c’è un politico che vuole intestarsi lo stop a questa vicenda, si faccia avanti con i fatti, non con le chiacchiere.
I paesi non hanno più tempo per la retorica: hanno bisogno di decisioni vere.