Bomba: dal gas alla diga, il rischio che non si può ignorare

Un lago artificiale con oltre 60 milioni di metri cubi d’acqua e un borgo che non vuole diventare l’ennesima tragedia italiana.

Ieri abbiamo parlato di Bomba, del progetto di estrazione di gas e della sopravvivenza stessa di un borgo che da anni lotta per difendere la sua identità.
Oggi il discorso si fa più drastico, perché non è solo questione di gas: qui c’è una diga, un bacino d’acqua e una valle intera che vive con il fiato sospeso.

La mia ultima stagione di lavoro a Pampeago fu nel 1984.
Pampeago è un piccolo centro alpino della Val di Fiemme, incorniciato dalle Dolomiti del Latemar: negli anni ’80 lo ricordo come il regno dello sci, con alberghi e rifugi pieni di vita; d’estate si trasformava in un luogo di boschi, sentieri e prati che respiravano silenzio e libertà.

Per arrivarci si passava sempre da Stava, un borgo che sembrava solo una tappa: ci si fermava all’entrata in un albergo, per un caffè, due chiacchiere, la vita semplice di paese.
Dopo anni di stagioni invernali a Pampeago conoscevo un po’ tutti, ed eravamo diventati quasi di casa. Ogni tanto, quando si scendeva a valle e cominciava a nevicare, il titolare ci faceva dormire nella hall, sui divani. Al mattino, al passaggio del primo spartineve, risalivamo pronti per il lavoro. Era un’abitudine fatta di fiducia e di comunità, un legame spontaneo che oggi ricordo con nostalgia.

Un anno dopo, nel luglio 1985, Stava non c’era più. La diga di decantazione della miniera crollò, riversando 180.000 metri cubi di fanghi che in pochi minuti trasformarono la valle in una pianura di fango: 268 vittime cancellate come se non fossero mai esistite

E allora il pensiero corre inevitabile al Vajont. Anche lì, nei mesi prima della tragedia, la gente protestava.
Gli abitanti di Longarone e dei paesi attorno al lago dicevano: «La montagna si muove, sentiamo boati, l’acqua trabocca». Scrissero lettere, chiesero ascolto. Ma furono accusati di esagerare, trattati come allarmisti.
La storia la conosciamo: la frana del 9 ottobre 1963 fece sollevare un’onda di oltre 200 metri che spazzò via Longarone e altri paesi. Quasi 2000 morti.

Oggi a Bomba non siamo davanti a un Vajont in scala, ma le analogie inquietano:

  • Una diga costruita negli anni ’60, in terra e ghiaia.
  • Un invaso che può contenere oltre 60 milioni di metri cubi d’acqua.
  • 88 frane censite attorno al bacino.
  • Un borgo che alza la voce, che convoca riunioni, che chiede ascolto.

Il primo centro abitato a valle è Piane d’Archi, che sarebbe investito per primo da un’onda di piena. Poi la massa d’acqua correrebbe giù per la Valle del Sangro, travolgendo aree industriali e infrastrutture vitali, fino alla costa.

La gente di Bomba e dei paesi vicini non è contro il progresso: è contro il rischio inutile. È la stessa contrarietà che ebbero i cittadini del Vajont e di Stava, prima di essere ridotti al silenzio.
E questo dovrebbe bastare a chi governa per fermarsi.

Se c’è un politico che vuole intestarsi lo stop a questo progetto, lo faccia ora, davanti alla comunità. Perché il giorno dopo, davanti al fango o ai titoli di cronaca, sarà troppo tardi.

Pensieri Scomposti e Il Sognatore Lento continueranno a monitorare questa vicenda, perché il dovere di chi scrive non è solo raccontare, ma anche vigilare su ciò che riguarda la sicurezza e il futuro dei nostri borghi.