
Il sole si alzava a fatica sopra i colli romagnoli, lento come un contadino che trascina il passo sul sentiero. L’aria del mattino era tagliente e la luce, invece di scaldare, sembrava incidere il cielo con lame pallide.
Dentro una casa modesta, appena fuori Dovia, le grida di una donna si mescolavano al suono di un martello sull’incudine. Da un lato la vita che stava nascendo, dall’altro il ferro che veniva piegato sotto colpi regolari.
Benito Mussolini nacque così, tra il fuoco e il ferro.
Era il 29 luglio 1883.
Il suo nome era già un proclama. Benito, come Juárez, l’eroe che aveva guidato il Messico alla libertà. Amilcare, come Cipriani, il rivoluzionario anarchico. Andrea, forse scelto solo per armonia, ma anch’esso destinato a pesare. In quella casa nulla era mai neutro: neppure un nome di battesimo.
Il padre, Alessandro, era fabbro e socialista. Le sue mani annerite dal carbone parlavano di fatica, ma la sua lingua ardeva di idee: lotta di classe, giornali popolari, rovesciamento dell’ordine costituito. Davanti al fuoco della forgia si sentiva un uomo che riforgeva il mondo.
La madre, Rosa Maltoni, era maestra elementare. Religiosa, composta, metodica. Credeva nella disciplina, nella scuola, nella Provvidenza. Per lei l’ordine era un dono necessario, come l’aria che si respira.
Benito crebbe sospeso tra quei due poli che raramente si incontravano ma abitavano la stessa cucina. Da una parte le invettive contro preti e monarchi, pronunciate con voce aspra e gesti larghi da Alessandro. Dall’altra il rosario recitato ogni sera da Rosa, con voce calma e ostinata.
Il bambino ascoltava, osservava, imparava.
Aveva uno sguardo che non sfuggiva nulla. A cinque anni sapeva leggere semplici frasi. A sette correggeva la madre durante le lezioni che impartiva ai piccoli del villaggio. La sua mente era affilata come una lama, il carattere ruvido come la lima del padre.
Non era un bambino docile. Un giorno difendeva un compagno con coraggio, il giorno dopo lo colpiva con un bastone per una parola storta. In lui convivevano generosità improvvisa e violenza repentina, come se due fuochi diversi bruciassero nello stesso cuore.
A scuola brillava per intelligenza, ma rifiutava la disciplina. Imparava in metà tempo, ma non tollerava imposizioni.
Un mattino, il maestro lo richiamò per aver parlato senza permesso. Benito si alzò, lo sguardo già tagliente.
— Non sono venuto qui per obbedire. Sono venuto per capire.
Aveva otto anni.
La frase rimbalzò tra i muri dell’aula, lasciando muti i compagni. Alcuni giurano che Benito Mussolini la pronunciò davvero. Altri sostengono che quelle parole fossero state dette da suo padre, Alessandro. Forse non le disse mai. Ma nella sua infanzia ogni gesto di sfida era come un seme caduto su un terreno che avrebbe dato frutti.
Anche in casa le tensioni non mancavano. Una sera d’inverno, Rosa lo invitò a recitare una preghiera prima di cena. Il fuoco crepitava nel camino, proiettando ombre danzanti sulle pareti annerite dal fumo. Alessandro mangiava in silenzio, con le mani ancora sporche di ferro e cenere.
— Ave Maria, piena di grazia… — cominciò Benito. Poi si fermò.
— Se Dio ci ama tanto, perché lascia che i bambini si ammalino?
Rosa posò il cucchiaio. — Non si bestemmia in questa casa.
— Non ho bestemmiato. Ho fatto una domanda.
— Ci sono domande che non si fanno.
— Perché? Perché fanno paura?
Alessandro rise, scuotendo il tavolo.
— Ecco il mio ragazzo! Meglio una domanda vera che cento rosari recitati a memoria.
Rosa serrò le labbra. — È tuo figlio, sì. Ma ha anche un’anima.
— L’anima gliela forgio io con le mani — ribatté il fabbro. — Se il prete vuole salvarla, venga a martellare con me.
Il silenzio calò. Solo Benito continuava a masticare, lo sguardo vigile, come se registrasse ogni parola per non dimenticarla più.
Alla scuola di Predappio diventava sempre più difficile contenerlo.
Un giorno lo sorpresero a leggere di nascosto un foglio socialista sotto il banco, uno di quelli che il padre portava a casa, spiegazzati e odorosi di inchiostro fresco. Il maestro glielo strappò con rabbia.
— Non è questa la lettura per un bambino! Sei qui per il sillabario, per le letture adatte alla tua età, non per certe idee da adulti!
— Ma io voglio sapere cosa succede davvero — replicò Benito. — Perché mio padre lavora tutto il giorno e non basta mai? Perché i padroni comandano e gli altri stanno zitti?
Il maestro, furioso, lo spinse in un angolo.
— In ginocchio. E zitto.
Il bambino obbedì. Ma non abbassò mai lo sguardo. Rimase lì, schiena dritta e occhi fissi sulla lavagna. Quando tornò al banco, scrisse con la matita sul margine del libro: Chi ha paura delle domande, ha già perso.
Rosa lo vestiva con cura, lo obbligava a studiare, gli parlava di Dio e del dovere. Ma bastava un pomeriggio nella fucina con Alessandro, tra il fuoco e i fogli del Sovversivo, perché ogni certezza si ribaltasse.
Il piccolo Mussolini cresceva come un animale che impara a parlare, ma non a piegarsi. Ogni autorità lo irritava, ogni comando lo spingeva alla sfida. Non era solo rabbia infantile: era la precoce sensazione di essere destinato a qualcosa. Di dover parlare. E farsi ascoltare.
Nel villaggio c’era chi lo ammirava e chi lo temeva. Qualcuno lo chiamava “il piccolo professore”, altri “il matto del fabbro”. Ma tutti sapevano che quel ragazzo non era uguale agli altri.
Dovia non era che un pugno di case: una chiesa, la bottega del fabbro, qualche orto e le strade di terra battuta. Le giornate scorrevano lente, tra il lavoro dei campi e i discorsi all’osteria. Eppure, in quella cornice ristretta, Benito camminava come se il mondo intero lo aspettasse oltre la collina.
Una sera d’estate, un vecchio contadino lo vide passare con passo deciso. Si voltò verso i presenti e disse:
— Quel Mussolini lì… o finisce impiccato, o comanda il mondo.
Qualcuno rise, ma fu una risata breve e stonata. Poi calò il silenzio. In lontananza abbaiò un cane.
E il ragazzo continuò a camminare, con la testa dritta e gli occhi puntati lontano.