Capitolo II – Non sono venuto per obbedire

Negli anni che seguirono, Benito continuò a crescere tra due mondi che non smettevano di urtarsi. Da un lato il villaggio di Dovia, con la sua scuola elementare, il sillabario e i cortili polverosi; dall’altro la voce del padre, che ogni sera portava a casa fogli pieni di parole infuocate, e la calma ostinata della madre, che lo richiamava alla disciplina e alla fede.

Era un bambino che non sapeva tenersi dentro nulla. Quando aveva un dubbio, lo gridava. Quando aveva una certezza, la difendeva con pugni stretti. A otto anni sapeva leggere meglio di molti adulti; a nove sfidava già il maestro con domande scomode. “Non sono venuto qui per obbedire. Sono venuto per capire”, aveva detto un giorno, e quell’eco non si spense più.

Ma il piccolo paese era troppo stretto per lui. I genitori decisero di mandarlo altrove, convinti che un’istruzione più severa potesse domarlo. A Faenza, dai Salesiani, Benito trovò un mondo fatto di corridoi silenziosi e regole inflessibili. Il collegio pretendeva ordine, disciplina, obbedienza cieca. Benito non ne conosceva nemmeno il significato. Era insofferente agli orari, alle preghiere obbligate, ai castighi. Più di una volta fu chiuso in punizione, lasciato a riflettere in isolamento. Ma in lui non cresceva il pentimento: cresceva la convinzione che la disciplina imposta fosse solo un ostacolo da abbattere.

I racconti tramandano che alzasse la voce contro i superiori, che ridesse in faccia alle correzioni, che non si piegasse mai davvero. Alla fine, l’espulsione fu inevitabile. Rosa si disperò: vedeva crollare il sogno di un figlio maestro, educato e rispettato. Alessandro invece alzò le spalle e rise amaro: “Non è nato per chinare la testa. Meglio così.”

Dopo Faenza, fu la volta di Forlimpopoli, alla Scuola Magistrale “Carducci”. Qui Benito cominciò davvero a farsi notare. Non più un bambino, non ancora adulto, portava già sulle spalle l’inquietudine dell’adolescenza. Entrava in aula con passo deciso, la fronte corrucciata, lo sguardo che sembrava misurare tutti. I professori si accorsero subito di lui: c’era intelligenza, memoria rapida, eloquenza. Ma c’era anche insolenza, sfida continua, incapacità di accettare un no.

A volte studiava con un impegno feroce, e allora superava i compagni con facilità. Altre volte rifiutava di aprire i libri e preferiva discutere, provocare, agitare le acque. Non c’era coerenza nei suoi comportamenti, ma c’era una costante: non passava mai inosservato.

Con i compagni non andava meglio. Benito non accettava di essere contraddetto o insultato. Bastava poco per accendere la sua rabbia. In un’occasione, durante una lite, estrasse un coltellino e colpì un ragazzo. Non fu un gesto calcolato, ma l’esplosione improvvisa di un carattere che non conosceva mezze misure. La ferita fu lieve, ma lo scandalo enorme. Da quel giorno molti lo guardarono con timore, e la fama di ragazzo pericoloso cominciò a seguirlo.

Eppure, chi lo frequentava più da vicino sapeva che Benito non era soltanto violenza. Era piuttosto un bisogno disperato di rispetto, un’esigenza continua di affermarsi, di far sentire la propria voce. Ogni suo gesto, anche il più duro, aveva lo stesso sottofondo: non voleva essere messo a tacere.

La sua vera passione, però, non erano le risse né i voti scolastici. Erano i libri e i giornali. Non solo quelli imposti dal programma, ma soprattutto quelli che parlavano di politica, di rivoluzione, di giustizia sociale. In biblioteca cercava testi che andavano oltre la sua età; nelle edicole comprava fogli che nascondeva sotto i manuali. Leggeva Marx, i socialisti italiani e francesi, i grandi pensatori che parlavano di popolo e di rivolta. Quelle idee gli entravano dentro con la forza di verità.

Ogni estate tornava a Dovia, e ritrovava la fucina del padre. Il martello sull’incudine, il vino rosso che accompagnava le discussioni, gli amici di Alessandro che parlavano di politica fino a notte fonda. Poi c’era Rosa, con il suo rosario e la sua fede inflessibile, che cercava di riportarlo a un senso di ordine. Benito viveva tra queste due forze contrarie come tra due calamite che lo tiravano in direzioni opposte. Ma invece di spezzarsi, imparava a portarle entrambe.

Verso i quindici anni, la sua figura era ormai conosciuta a Forlimpopoli. Nei corridoi della scuola, i compagni lo riconoscevano subito: passo deciso, occhi che non abbassavano mai lo sguardo, una voce capace di zittire una stanza intera. Alcuni lo ammiravano, vedendo in lui un leader naturale. Altri lo temevano, convinti che un ragazzo così non avrebbe potuto che finire male.

Nel 1899, a sedici anni, Benito era già un adolescente formato. Aveva raccolto punizioni e rimproveri, ma anche successi scolastici inattesi. Quando decideva di impegnarsi, i suoi voti superavano quelli di chiunque altro. Sapeva esporre con chiarezza, argomentare con sicurezza, memorizzare con facilità. Persino gli insegnanti più severi ammettevano che in lui c’era una forza intellettuale non comune. Ma nello stesso tempo lo consideravano ingestibile.

Così arrivò il 1900. Benito aveva diciassette anni e la sensazione di essere pronto a tutto. Alle spalle lasciava un decennio di infanzia e adolescenza segnate da scontri, ribellioni, fughe e ritorni. Non era più un bambino curioso, né soltanto un ragazzo rabbioso. Era un giovane uomo che camminava con la certezza di avere un destino da compiere, anche se non sapeva ancora quale.

A Forlimpopoli, lo si vedeva passare tra le strade con lo sguardo fisso, il passo deciso. I compagni lo seguivano con rispetto e timore. Gli adulti lo osservavano scuotendo la testa: alcuni lo giudicavano un ribelle senza speranza, altri riconoscevano in lui una fiamma destinata a diventare incendio.

Il secolo nuovo cominciava, e con esso la vita di un ragazzo che non voleva più soltanto capire, ma presto avrebbe preteso di guidare.

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