
(Pensieri Scomposti)
Un tempo, quando il mare era un nemico da rispettare più che una cartolina da fotografare, i trabocchi nascevano dalla paura e dall’ingegno. La paura di affrontare l’Adriatico con barche fragili, la necessità di inventare un modo per pescare senza allontanarsi dalla riva, e l’ingegno di chi sapeva lavorare il legno come si lavora il pane: con mani nodose e con pazienza.
I primi trabocchi, ci raccontano le cronache e le leggende, non avevano nulla di romantico. Erano macchine precarie, palafitte di assi e corde che oscillavano al vento, costruite con quello che c’era: tronchi di pino d’Aleppo, chiodi di recupero, corde intrecciate a mano. Nessuno li guardava per la loro bellezza, nessuno li fotografava al tramonto: servivano a sopravvivere. Ogni pesce tirato su dalla rete significava una cena, un domani più sicuro, un debito in meno col bottegaio.
Oggi i trabocchi sono ancora lì, sospesi tra cielo e mare, ma le mani callose dei pescatori sono state sostituite dai guanti dei camerieri. Dove prima si urlava per tirare su le reti, oggi si sussurra “gradisce un calice di Pecorino superiore?”. Dove prima c’erano reti rattoppate, oggi ci sono tovagliette coordinate, e al posto delle cassette di pesce fresco c’è la carta dei vini lunga quanto un romanzo russo.
Certo, non tutto è negativo. Senza la trasformazione in ristoranti, molti trabocchi sarebbero caduti a pezzi, divorati dalla salsedine. L’economia della costa ha trovato nuova linfa nel turismo, e c’è un orgoglio diffuso nel vedere queste strutture diventare simbolo identitario. Non a caso si parla di “Costa dei Trabocchi” come brand, e la ciclovia che costeggia il mare porta migliaia di turisti ogni estate.
Ma c’è un rovescio della medaglia: in questa corsa al “ristorante sull’acqua”, il rischio è che i trabocchi perdano l’anima. Troppo spesso si assiste a cene che costano come una settimana di spesa per una famiglia, a menù gourmet che sembrano dimenticare le radici povere della tradizione marinara. Il brodetto di pesce, un tempo piatto umile cucinato con ciò che rimaneva nelle reti, diventa un piatto “rivisitato” con fronzoli da chef stellato, e il cliente lo fotografa prima ancora di assaggiarlo.
I pescatori di un tempo avrebbero sorriso amaramente. Loro che spesso tornavano a casa con le mani vuote e con il mare ancora negli occhi, non avrebbero mai immaginato che un giorno il trabocco potesse diventare location da matrimonio, con fiocchi bianchi e palloncini che sfidano la brezza marina. Per loro era un posto di fatica, non di festa.
Eppure la storia è proprio questa: i trabocchi, da macchine di pesca, sono diventati macchine della ristorazione. È un passaggio inevitabile, forse, ma che impone una riflessione: quando un simbolo identitario si piega al mercato, come facciamo a non perderne l’anima?
Prendiamo l’esempio delle visite guidate. Alcuni trabocchi oggi si raccontano ai turisti con una voce gentile che spiega storia, leggende e tecniche di pesca. Un’operazione importante, certo, ma che a volte sa di “folklore confezionato”. Come se bastasse una narrazione ben recitata per ricreare un mondo che era fatto di calli, di sale negli occhi e di schiene curve.
Il punto non è essere contro i ristoranti: sarebbe ipocrita. Il punto è non dimenticare che quei legni hanno un’anima che viene dal sudore e non dai conti correnti dei turisti stranieri. Il trabocco non è nato per l’aperitivo al tramonto, è nato per la sopravvivenza. Non era “esperienza sensoriale”, era lotta quotidiana.
E allora forse il vero modo di rispettarli non è solo sedersi a tavola e postare la foto su Instagram, ma fermarsi un attimo a pensare a chi, su quella passerella di legno, passava notti intere a calare reti per sfamare i figli.
Satira della modernità
Immaginate una conversazione tra un vecchio pescatore e un cameriere di oggi:
- Pescatore: “Io qui ci ho lasciato la pelle, e quando il mare era grosso rischiavo di non tornare.”
- Cameriere: “Certo signore, ma adesso può tornare tutte le volte che vuole, basta prenotare su TripAdvisor.”
Oppure una guida che racconta la poesia di d’Annunzio mentre al tavolo accanto un turista chiede se c’è la carbonara di mare, e un altro se il brodetto è senza spine perché “non lo digerisce”.
La contraddizione è tutta qui: un luogo nato dalla fatica è diventato palcoscenico di mode gastronomiche. Non sempre, per fortuna: ci sono anche gestori seri che custodiscono la tradizione e la raccontano con rispetto. Ma la deriva verso il “ristorante chic” è evidente, e rischia di trasformare i trabocchi in caricature di se stessi.
Conclusione
Forse il futuro dei trabocchi sta proprio in questo equilibrio: resistere come memoria viva, senza diventare parodie. Non si tratta di condannare chi ci mangia o chi li gestisce, ma di ricordare che ogni asse, ogni corda, ogni passerella sospesa sul mare porta dentro una storia che merita rispetto.
Perché i trabocchi non sono stati costruiti per servire ostriche al tramonto, ma per pescare albe di sopravvivenza. E se oggi li usiamo per cenare, facciamolo con la consapevolezza che lì, dove ora posiamo il bicchiere di vino, un tempo cadevano gocce di sudore.
Morale della favola:
👉 i trabocchi ci insegnano che il confine tra memoria e marketing è sottile. Sta a noi non dimenticare da quale parte soffia il vento del mare.
✒️ Il Sognatore Lento