Capitolo 1 – L’apertura del tribunale

20 novembre 1945

“L’aula del Palazzo di Giustizia di Norimberga il 20 novembre 1945, durante l’apertura del processo. In primo piano gli imputati nazisti sorvegliati dai soldati americani, sullo sfondo i giudici internazionali e il pubblico.”

Il freddo di novembre filtrava dalle finestre della grande aula del Palazzo di Giustizia di Norimberga. Le pareti, rivestite di pannelli lignei, sembravano troppo strette per contenere il peso della storia che stava per accadere. In una città ridotta a macerie dai bombardamenti, quell’aula appariva come un’isola di ordine nel mare del caos: un rifugio momentaneo dove la legge tentava di rialzarsi dalle rovine della guerra.

Alle otto del mattino le prime file dei giornalisti erano già gremite. Taccuini aperti, macchine fotografiche pronte, sguardi concentrati. Erano più di duecento: americani, inglesi, francesi, sovietici, ma anche osservatori neutrali, scrittori e intellettuali. Molti avevano ancora negli occhi le immagini dei campi liberati pochi mesi prima. Scrivevano con mani tremanti, consapevoli che ciò che stava iniziando non era soltanto un processo, ma una frattura nella coscienza del mondo.

Un brusio fitto, fatto di lingue intrecciate, riempiva la sala. Inglese, russo, francese, tedesco: un mosaico sonoro in cui si rifletteva il nuovo ordine del mondo. Per la prima volta veniva usato un sistema di traduzione simultanea con cuffie e microfoni — un’invenzione destinata a cambiare per sempre il modo di comunicare nei tribunali internazionali. I tecnici controllavano ossessivamente cavi e apparecchi, temendo che un guasto potesse inceppare l’ingranaggio della giustizia.

Poi il rumore cessò. Una porta si aprì e, uno a uno, fecero il loro ingresso i ventuno imputati presenti. Tutti in fila, sorvegliati da soldati americani in uniforme bianca. Non più generali, non più ministri, non più ideologi. Solo uomini con le mani giunte dietro la schiena, le cuffie al collo e passi pesanti come catene.

Hermann Göring avanzava con il passo sicuro di chi non voleva cedere terreno. Ex maresciallo del Reich e capo della Luftwaffe, mostrava ancora un’aria di comando. Il suo sguardo sfidava i fotografi, come se il banco degli imputati fosse un palcoscenico su cui recitare l’ultimo atto della sua vita. Si aggiustò la giacca e sedette con un sorriso ironico, compiaciuto dell’attenzione che ancora suscitava.

Dietro di lui, Rudolf Hess, l’ex delfino di Hitler, sembrava perso in un mondo interiore. Si muoveva lentamente, con espressione assente, come se non fosse davvero lì. Qualcuno diceva che soffrisse di amnesie; altri, che fosse solo una messinscena. Nessuno, in quell’aula, riusciva a capirlo fino in fondo.

Joachim von Ribbentrop, ministro degli Esteri del Reich, teneva il capo rigido, lo sguardo fisso davanti a sé. Era stato il diplomatico delle alleanze e delle menzogne, e ora si ritrovava a rispondere di quelle stesse firme che avevano incendiato l’Europa.
Albert Speer, l’architetto e ministro degli armamenti, appariva più composto, quasi distinto. Diverso dagli altri per il suo contegno meno arrogante: ascoltava, prendeva appunti, come se già preparasse la propria redenzione.

Gli altri — generali e gerarchi — presero posto in silenzio. Wilhelm Keitel, capo delle forze armate, aveva il volto di pietra. Alfred Jodl, lo stratega militare, teneva gli occhi bassi. Julius Streicher, il fanatico propagandista antisemita, fissava il vuoto con sguardo febbrile. Solo il rumore delle sedie che strisciavano sul pavimento ricordava che non erano spettri, ma uomini in carne e ossa.

Sul lato opposto, i giudici internazionali presero posto. Provenivano dalle quattro potenze vincitrici: Geoffrey Lawrence per il Regno Unito, Francis Biddle per gli Stati Uniti, Henri Donnedieu de Vabres per la Francia, Iona Nikitchenko per l’Unione Sovietica. Quattro volti, quattro lingue, quattro visioni del mondo unite da un’unica convinzione: la guerra non poteva restare impunita.
Alle loro spalle, un corteo di segretari, stenografi e interpreti completava la scena: il nuovo linguaggio della giustizia prendeva forma sotto gli occhi del mondo.

“Robert H. Jackson, procuratore capo statunitense, pronuncia il discorso di apertura al Processo di Norimberga il 20 novembre 1945. Alle sue spalle, i giudici internazionali ascoltano in silenzio.”

Quando il presidente Lawrence batté il martelletto, nella sala calò un silenzio assoluto. Quel colpo secco segnava la fine di un’epoca e l’inizio di un’altra: il tempo della violenza lasciava spazio al tempo del giudizio.

Il procuratore capo americano, Robert H. Jackson, si alzò. Uomo di parola chiara e tono fermo, iniziò a delineare ciò che quel tribunale rappresentava:

“Ciò che chiediamo qui è che la legge parli con voce ferma, in nome della civiltà intera. Non è la vendetta dei vincitori, ma la giustizia dell’umanità.”

Le sue frasi attraversarono l’aula come fendenti. Gli imputati lo ascoltavano in silenzio: qualcuno scuoteva il capo, altri fissavano il tavolo, altri ancora — come Göring — sorridevano con sarcasmo. Ma per la prima volta, il potere assoluto di ieri si trovava sotto l’occhio imparziale della legge.

Fuori, le strade di Norimberga restavano cumuli di pietre e polvere. Dentro, invece, si erigeva un edificio invisibile: quello della giustizia internazionale, che tentava di prendere forma tra le rovine del mondo.

I giornalisti annotavano senza sosta. Alcuni si fermavano a osservare i dettagli: la mano che tremava di un imputato, il tic nervoso di un giudice, la luce che filtrava dalle finestre creando ombre inquietanti sul banco degli accusati. C’era chi scriveva con distacco, chi con rabbia, chi con commozione. Tutti, però, sapevano di essere testimoni di una nascita: quella del diritto penale internazionale.

“La platea dei giornalisti al Processo di Norimberga. Oltre duecento cronisti, scrittori e fotografi da tutto il mondo seguirono le udienze, trasformando il tribunale in un palcoscenico globale della giustizia.”

In quel 20 novembre 1945, più che un’aula di tribunale, sembrava di assistere a un rito. L’eco del passato aleggiava tra quelle pareti: i campi di sterminio, le marce dei prigionieri, i bombardamenti sulle città. Tutto entrava con loro, invisibile, e si sedeva accanto ai giudici, ai procuratori, ai giornalisti.

La storia non era più solo cronaca.
Da quel giorno, era diventata processo.

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