Tra una traversata in traghetto, un compleanno in silenzio e il nuovo ruolo di commis ai vini, Matteo scopre una passione destinata a durare tutta la vita.

La partenza da Piombino aveva sempre un fascino particolare. Il traghetto lasciava il porto lentamente, quasi con solennità, e dopo pochi minuti la costa toscana si faceva già più lontana. L’acqua del Tirreno rifletteva la luce del sole in giochi d’argento, e l’aria salmastra riempiva i polmoni. Un’ora e venti di traversata, e davanti agli occhi di Matteo compariva Portoferraio, con le sue case colorate e il profilo delle colline alle spalle.
Dal porto, un pullman lo condusse all’albergo. Non era più il ragazzo impacciato dell’anno precedente: questa volta sapeva dove scendere, chi cercare, a chi chiedere indicazioni. Con passo più sicuro entrò all’Hermitage, salutò i volti già conosciuti e si avviò senza esitazione verso l’alloggio che gli era stato assegnato.
La prima cosa che fece, prima ancora di sistemare i vestiti, fu prendere carta e penna. Scrisse a Eleonora. Non parole elaborate, ma semplici e dirette, piene della speranza che potesse arrivare una risposta. La distanza non cancellava il ricordo del loro legame, e ogni riga era un filo che cercava di riannodare quanto il tempo aveva sospeso.
Un compleanno silenzioso
Il 29 maggio, in quasi totale silenzio, Matteo compì diciassette anni. Nessuna festa, nessuna torta con candeline: soltanto qualche augurio sussurrato dai compagni di lavoro più vicini.
Da Eleonora non arrivò nulla, nemmeno un pensiero. Matteo invece, per il suo compleanno, le aveva inviato una cartolina, scelta con cura, con parole semplici ma sentite. Quel silenzio lo ferì, anche se cercò di non darlo a vedere.
Era un compleanno diverso dagli altri: senza clamori, ma pieno di significato. Perché segnava il passaggio da un’età ancora infantile a un tempo nuovo, in cui le responsabilità diventavano più pesanti e le scelte più decisive.
I primi giorni all’Hermitage
Fin dai primi turni Matteo comprese che quella stagione sarebbe stata diversa. Aveva una predisposizione naturale per le lingue: senza aver mai messo piede all’estero, sapeva salutare e rispondere con sicurezza in tedesco — la lingua più parlata dai clienti, specialmente in bassa stagione — e se la cavava bene anche in francese.
Dove invece arrancava era l’inglese: poche parole, pronunciate male e con fatica. Ma all’Elba, in quegli anni, non era un problema grave. La clientela era composta in larga parte da tedeschi, a seguire i francesi, mentre gli anglosassoni erano una minoranza.
Fu proprio il maître a decidere il suo incarico. Lo osservò nei primi giorni, valutò le sue capacità e infine stabilì che non avrebbe avuto un rango in sala, ma che sarebbe stato destinato come commis ai vini, a fianco dello chef ai vini. Un compito che richiedeva cura, discrezione e senso di responsabilità.
Agli occhi di Matteo, quella scelta fu in realtà una piccola promozione. Non tutti i commis erano ritenuti all’altezza di ricoprire quel ruolo: serviva prontezza, ordine e una certa sicurezza con le lingue straniere, qualità che il maître aveva riconosciuto in lui.
L’innamoramento per il vino
Accettò con entusiasmo, e proprio lì iniziò qualcosa che avrebbe segnato la sua vita: il suo innamoramento per il vino.
A fianco dello chef ai vini imparò a osservare le etichette, a distinguere i profumi, a versare con gesto sicuro e a presentare ogni bottiglia come un piccolo tesoro. Non era solo tecnica: era un’arte che lo affascinava sempre di più.
Fu in quelle giornate, tra cantina e sala, che Matteo iniziò il suo lento cammino: un percorso fatto di curiosità e di rispetto, che lo avrebbe accompagnato per tutta la vita. Ogni bottiglia aperta era come una porta che si spalancava su un mondo nuovo, e lui sentiva di aver trovato qualcosa che andava oltre il lavoro: una passione che cresceva silenziosa, ma profonda.
Una divisa speciale
Il ruolo di commis ai vini non lo distingueva soltanto per il compito, ma anche per la divisa diversa dagli altri commis. Era un dettaglio che a Matteo non sfuggiva: quella giacca più elegante, il gilet rifinito con cura, i particolari che richiamavano al mondo raffinato della cantina. Indossarla lo faceva sentire speciale, parte di qualcosa di più grande.
Ben presto quella differenza fu notata anche dagli altri. All’interno della brigata Matteo cominciò a essere ammirato e apprezzato. Non per arroganza, ma per la serietà con cui affrontava ogni turno, l’attenzione nel servizio e la voglia di imparare. La conferma arrivò quando, inaspettatamente, ricevette un elogio diretto dal proprietario, l’ingegner De Ferraris. Un riconoscimento che lo riempì d’orgoglio e gli fece capire quanto fosse importante, già a diciassette anni, la reputazione costruita giorno dopo giorno.
Un palcoscenico di volti noti
Anche all’Hermitage i clienti di spicco non mancavano. Volti conosciuti del mondo industriale, imprenditori e famiglie benestanti si susseguivano ai tavoli. L’albergo, tra i più prestigiosi dell’isola, era diventato un punto di ritrovo esclusivo per la nobiltà italiana ed europea che trascorreva le vacanze all’Elba.
Per Matteo, ogni servizio diventava una piccola lezione di mondo: osservava il modo in cui gli ospiti si muovevano, come parlavano, i gesti e i silenzi che li accompagnavano. Non era semplice lavoro: era uno sguardo privilegiato dentro un’Italia che cambiava e che spesso sembrava distante anni luce dai piccoli paesi di provincia.
L’estate del Cantagiro
Quell’estate del 1972 fu resa ancora più vivace da un evento che portò sull’isola una ventata di musica e leggerezza: il Cantagiro. I cantanti arrivavano e partivano, ospitati negli alberghi più prestigiosi, e l’Hermitage era tra questi.
Matteo si ritrovò così a servire artisti che fino ad allora aveva visto solo in televisione o sentito alla radio. C’erano serate in cui i corridoi dell’albergo si riempivano di chitarre, risate, improvvisazioni musicali. Per lui, ragazzo cresciuto tra montagne e stagioni di lavoro, era come vivere dentro una parentesi sospesa, un piccolo festival quotidiano che rendeva l’estate ancora più indimenticabile.
Conclusione
L’estate del 1972 segnò per Matteo un nuovo passo avanti. Aveva compiuto diciassette anni in silenzio, ma con la consapevolezza di un cammino che stava diventando sempre più suo. Il vino, i clienti, i riconoscimenti, le serate animate dalla musica: tutto contribuiva a farlo crescere, ad aprirgli mondi nuovi.
Non era più soltanto il ragazzo che partiva e tornava: era un giovane che, giorno dopo giorno, stava imparando ad abitare il futuro.