
Io personalmente non vado a messa, però sono convinto che il crocifisso debba tornare in tutte le scuole italiane.
Non lo dico da credente praticante, perché non lo sono, ma da figlio di borghi di montagna, dove la presenza del crocifisso nelle aule, nelle case e nelle piazze era naturale come l’aria che si respirava.
Nei paesi da cui provengo, il crocifisso non era soltanto un simbolo religioso: era un segno di comunità. Un richiamo silenzioso che univa la gente nei momenti duri e nelle piccole gioie quotidiane. Era la certezza che, nonostante la povertà e la fatica, esisteva una dignità più grande di noi.
Toglierlo, con la scusa della neutralità, non ha reso la scuola più moderna o più inclusiva. Ha solo cancellato un legame con la nostra storia.
Perché la neutralità assoluta non esiste: ogni comunità ha i suoi riferimenti. E nei nostri borghi di montagna quei riferimenti erano chiari, condivisi, radicati nella vita di tutti i giorni.
Il crocifisso non obbliga nessuno a pregare. Rimane lì, in silenzio, a ricordare valori universali: sofferenza, speranza, sacrificio, amore. Non divide, non esclude: ricorda.
E allora perché dar fastidio? Forse perché siamo diventati più pronti a cancellare che a spiegare. Ma la scuola dovrebbe fare il contrario: non nascondere i simboli, ma insegnare a comprenderli.
Riportare il crocifisso nelle scuole significa restituire un punto di riferimento, un segno di identità. Non è un ritorno indietro, ma un atto di verità.
Perché chi viene da un borgo sa bene che senza radici non si resiste, e senza memoria non si cresce.
Io non vado a messa, però voglio il crocifisso nelle scuole.
Perché è parte di quello che siamo.