
L’Italia lo accolse di nuovo nel 1904, con le stesse strade polverose e gli stessi campi che aveva lasciato due anni prima. Ma Benito non era più lo stesso ragazzo. L’esperienza svizzera, con la fame, le notti all’aperto e il carcere di Berna, gli aveva indurito lo sguardo. Tornava con la certezza di aver scelto una strada: quella della politica e della lotta.
La Romagna gli parve insieme familiare e troppo stretta. Dovia, Predappio, Forlimpopoli: gli stessi volti, le stesse botteghe, la stessa chiesa che chiamava i fedeli alla messa. Ma in lui c’era un fermento nuovo, una volontà che non trovava pace. Rosa cercava di stringerlo a sé, di riportarlo alla quiete del dovere e della fede. Alessandro, orgoglioso, lo presentava agli amici come “il mio figlio ribelle, che ha già conosciuto le prigioni per le sue idee”.
Il ritorno non fu semplice. I soldi mancavano. Benito si adattò a lavori saltuari, ma presto tornò al mestiere che il diploma magistrale gli permetteva: insegnare. Insegnò in piccoli paesi della Romagna e del Veneto, entrando nelle aule con il passo di chi non si accontenta. Non era un maestro qualunque: parlava ai ragazzi con voce sicura, spesso li spingeva a ragionare più che a ripetere. Alcuni lo ricordarono come appassionato, altri come severo. Le autorità scolastiche, invece, lo consideravano troppo instabile, troppo agitato, poco rispettoso delle regole.
Ogni volta la storia si ripeteva: entusiasmo iniziale, conflitti inevitabili, incarichi che duravano pochi mesi. La sua vera cattedra non erano le aule, ma le piazze.
Il giovane Mussolini cominciò infatti a parlare nei circoli socialisti, nelle osterie, nelle riunioni improvvisate tra operai e contadini. La sua voce, roca ma piena di immagini, trascinava. Non era ancora un grande oratore, ma sapeva accendere l’ascolto. Gridava contro i padroni, contro la monarchia, contro la Chiesa. Ripeteva idee lette nei giornali sovversivi, ma le colorava con la passione della sua esperienza.
In poco tempo si fece notare. Alcuni compagni lo ammiravano: “Ha la lingua di un capo”, dicevano. Altri lo guardavano con diffidenza: troppo impetuoso, troppo incline alla rissa. Ma nessuno rimaneva indifferente.
Il 1904 fu anche l’anno del grande sciopero generale, il primo della storia italiana. In Romagna, terra da sempre inquieta, la mobilitazione ebbe eco forte. Benito vi partecipò con ardore, vedendo in quella protesta un segno che il popolo poteva davvero ribellarsi. Non era più solo un giovane ribelle isolato: era parte di un movimento più grande.
Gli anni seguenti lo videro oscillare tra la cattedra e la piazza. Insegnava per necessità, ma parlava per vocazione. Più volte venne denunciato per discorsi considerati sovversivi. La polizia iniziò a conoscerlo: giovane alto, sguardo cupo, voce tonante, capace di radunare attorno a sé contadini e operai.
Il 1905 lo vide insegnante a Tolmezzo, in Friuli. Qui scoprì la durezza della vita di provincia lontana, ma anche la solidarietà tra lavoratori. Continuava a scrivere articoli per piccoli giornali locali, firmandosi con pseudonimi, e le sue righe avevano già il tono della sfida. In quelle terre del Nord, Benito affinava il suo ruolo di propagandista, mescolando il mestiere di maestro con quello di agitatore.
Ma la vita non gli risparmiava fatiche. I soldi erano sempre pochi, i contratti scolastici brevi, le diffidenze tante. Rosa lo spronava alla stabilità, Alessandro lo spingeva a non mollare la lotta. Benito viveva in bilico, senza ancora sapere come trasformare la sua energia in una vera direzione.
Nel 1906 tornò in Svizzera per un breve periodo, inseguendo di nuovo l’idea di trovare un impiego migliore e un ambiente politico più libero. Ma la polizia lo teneva d’occhio, e non trovò che precarietà. Rientrò in Italia, più determinato che mai a continuare la sua battaglia nel suo Paese.
A ventitré anni, nel 1907, era ormai conosciuto nei circoli socialisti della Romagna. Parlava, scriveva, litigava, organizzava. Non era ancora al centro del movimento nazionale, ma la sua presenza cominciava a farsi sentire. Ogni comizio era un’occasione per rafforzare la sua voce e per collaudare il suo ruolo di oratore.
Intanto, la sua vita privata restava tormentata. Viveva di poco, cambiava spesso alloggio, non aveva sicurezze. Ma dentro di sé sentiva crescere una fiamma che nessuna difficoltà riusciva a spegnere.
Il 1908 lo vide ancora insegnante, ma sempre in conflitto con i superiori. Troppo indipendente, troppo politicizzato, troppo poco disposto a rispettare le gerarchie scolastiche. Era evidente che la carriera di maestro non sarebbe mai stata il suo destino.
Verso la fine del decennio, nel 1909, Benito era già un giovane uomo conosciuto come agitatore politico. Scriveva su fogli socialisti locali, partecipava a riunioni, parlava in pubblico. Le autorità lo segnalarono più volte come individuo pericoloso. Lui non si preoccupava: anzi, ne traeva motivo di orgoglio. “Se la polizia mi teme, vuol dire che comincio a contare”, diceva con un sorriso duro.
Il ragazzo che a otto anni aveva sfidato il maestro ora sfidava la società intera. Non era ancora il leader, non era ancora l’uomo dei balconi, ma aveva già trovato la sua voce. Una voce che non chiedeva permesso, che non accettava silenzi, che cercava ascolto a ogni costo.
Così finiva il primo decennio del secolo. Benito Mussolini, maestro inquieto e oratore di piazza, era già conosciuto come agitatore politico in Romagna. Parlava nelle osterie, scriveva su fogli locali, organizzava comizi improvvisati tra contadini e operai. La polizia lo teneva d’occhio, annotando il suo nome nei registri come individuo da sorvegliare.
Ma non era ancora iscritto al Partito Socialista. Viveva ai margini della sua organizzazione, sostenendone le battaglie, ma conservando quella distanza che gli permetteva di restare libero, insofferente a ogni disciplina. Era un ribelle che usava il socialismo come lingua e bandiera, senza accettarne ancora le regole interne.
Il ragazzo che a otto anni aveva sfidato il maestro ora sfidava la società intera. Non era ancora il leader, non era ancora l’uomo dei balconi, ma aveva già trovato la sua voce. Una voce che non chiedeva permesso, che non accettava silenzi, che cercava ascolto a ogni costo.
Il 1909 si chiudeva così: con un giovane Mussolini che camminava per le strade di Forlì e Forlimpopoli a testa alta, povero di mezzi ma ricco di rabbia, con la certezza che il futuro gli apparteneva. Nessuno sapeva ancora dove sarebbe arrivato. Ma era chiaro a tutti che non si sarebbe fermato.