Capitolo VI – La mia vita: l’autobiografia dimenticata del giovane Mussolini

Introduzione

Prima del Duce, prima dei balconi e delle folle oceaniche, c’è un Mussolini giovane, irrequieto, appena ventiseienne. È il 1909, e il suo destino si incrocia con le sbarre del carcere di Forlì. Arrestato per i suoi discorsi infuocati e la sua attività socialista, si ritrova in cella, con tempo e silenzio a disposizione. È qui che prende forma La mia vita, un breve scritto autobiografico che oggi è quasi dimenticato, ma che allora rappresentò il manifesto di un giovane ribelle in cerca di sé stesso.


Un giovane irrequieto

Fin dalle prime pagine, Mussolini non nasconde il tono autocelebrativo. Scrive:

“Ho avuto una giovinezza avventurosa e tempestosa. Ho conosciuto il bene e il male della vita. Mi sono fatto una cultura e una salda scienza.”

Le parole non raccontano soltanto, ma scolpiscono un’immagine: quella di un ragazzo che si vede già uomo temprato dalle prove. Non c’è modestia, non c’è esitazione. È l’autorappresentazione di chi percepisce la propria vita come diversa, segnata da un destino speciale.


Il nomadismo come destino

Uno dei motivi più ricorrenti è l’instabilità, il movimento continuo. Mussolini lo rivendica con fierezza:

“In questi dieci anni ho deambulato da un orizzonte all’altro: da Tolmezzo a Oneglia, da Oneglia a Trento, da Trento a Forlì.”

Ogni luogo diventa tappa di un percorso che non conosce radici stabili. Non è precarietà, agli occhi di Mussolini: è esperienza, è il prezzo necessario per accumulare quella “cultura” che si attribuisce da autodidatta. La vita da maestro, gli incarichi brevi, i viaggi in Svizzera e in Italia: tutto concorre a dipingere l’immagine di un giovane nomade che rifiuta di fermarsi.


L’irrequietezza permanente

La parola che più spesso ritorna è “irrequieto”. Non è un difetto, per lui: è una bandiera.

“Io sono un irrequieto, un temperamento selvaggio, schivo di popolarità.”

C’è orgoglio nell’essere diverso, nell’essere in contrasto con il mondo. Quella definizione racchiude bene il Mussolini ventiseienne: insofferente, incapace di rimanere fermo, attratto da tutto ciò che scuote e divide.


Il carcere come specchio

Il pagliericcio, le mura fredde, le giornate uguali: il carcere di Forlì gli offre tempo per pensare e scrivere. Non un diario intimo, ma un autoritratto ardente.

“Sono tre anni che mi trovo a Forlì e già sento nel sangue il fermento del nomadismo che mi spinge altrove.”

Perfino il carcere diventa punto di passaggio, mai stasi definitiva. Non c’è pace, non c’è riposo: c’è soltanto fermento.


Politica come necessità

La politica non è presentata come una scelta di carriera, ma come una vocazione ineluttabile. L’esperienza in Svizzera, a contatto con rivoluzionari e immigrati, diventa un marchio:

“Il soggiorno all’estero mi ha facilitato l’apprendimento delle lingue moderne. Ma soprattutto mi ha dato la coscienza che la vita è lotta, e la lotta è l’unico pane che sazia.”

In questa frase si coglie tutta la visione mussoliniana di quegli anni: la vita è battaglia, e chi non combatte è già sconfitto.


Tra amori e oblio

Il giovane Benito non si nega nemmeno confessioni intime. Con tono distaccato, quasi cinico, scrive:

“Ho amato molte donne, ma ormai su questi amori lontani stende il suo grigio velo l’oblio.”

Un accenno rapido, senza nomi né dettagli, come se la sua vita sentimentale passata fosse solo un capitolo secondario di un’esistenza destinata ad altro.

Eppure, poche righe dopo, il tono cambia. Compare Rachele Guidi, la donna che diventerà sua moglie:

“Ora amo la mia Rachele e anch’essa profondamente mi ama.”

Dal disincanto passa a un’affermazione netta, quasi solenne. È l’unico punto stabile in un testo che respira instabilità e movimento.


L’ombra del futuro

C’è un passaggio che colpisce per la sua ambiguità. Dopo aver raccontato i viaggi, gli amori, la lotta politica, Mussolini si ferma e scrive:

“Che cosa mi riserva l’avvenire?”

Una domanda sospesa, che letta oggi ha un sapore quasi profetico. Nel 1909 non sapeva ancora che sarebbe diventato il capo del fascismo e uno dei protagonisti tragici del Novecento. Ma già sentiva che il futuro non gli sarebbe stato banale.


Un documento prezioso

La mia vita non è un testo lungo né sistematico. Non è un’opera letteraria compiuta, ma un mosaico di riflessioni e autocelebrazioni. È un ibrido tra confessione personale e manifesto politico. Ma è proprio questa natura imperfetta a renderlo prezioso: ci mostra Mussolini prima di Mussolini, un ventiseienne che si racconta con il linguaggio dell’irrequietudine.


Conclusione

A più di un secolo di distanza, La mia vita resta uno scritto poco conosciuto e raramente letto. Eppure è fondamentale per capire il giovane Mussolini: l’insegnante precario, l’oratore di piazza, il socialista inquieto. Un ragazzo che si definiva “selvaggio e irrequieto”, che vedeva la vita come lotta e il futuro come battaglia.

Quel manoscritto, scritto su un pagliericcio nel carcere di Forlì, è il primo mattone della sua leggenda personale. E resta il ritratto più autentico di un giovane che, senza saperlo, stava già preparando il proprio destino.

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