Capitolo VIII – Contro la guerra di Libia (1911-1912)Capitolo VIII –

La Romagna era ancora il suo terreno di battaglia, ma ormai Benito Mussolini sentiva che la sua voce correva più veloce delle strade polverose di Forlì. La penna de La Lotta di Classe aveva già ferito molti padroni e turbato più di un funzionario di polizia. Poi, nel 1911, la Storia bussò con violenza: il governo Giolitti decise di dichiarare guerra all’Impero ottomano per conquistare la Libia.


La voce controcorrente

L’Italia intera si scaldava di nazionalismo. I giornali gridavano all’orgoglio patriottico, i liberali parlavano di “nuove terre per il lavoro italiano”. Persino una parte del Partito Socialista esitava: condannare la guerra apertamente o limitarsi a parole prudenti?

Benito non esitò un istante. Per lui, la guerra non era né onore né conquista: era sfruttamento. Nei suoi articoli scrisse con rabbia:

“Questa guerra è una macelleria inutile, è un delitto contro la civiltà.”

Non erano solo parole. Nei comizi, la sua voce si faceva ancora più dura:

“Mandano i nostri contadini a morire nel deserto. E per chi? Perché il padrone abbia più terre e il monarca più gloria.”


Le piazze in fiamme

Le piazze di Forlì, Cesena, Imola si riempivano di operai e contadini. Quando Mussolini parlava, l’indignazione si trasformava in coro. Lì non si discuteva di strategie coloniali: lì si contavano le bocche affamate, i figli senza pane, gli uomini che sarebbero partiti senza tornare.

Un testimone ricorderà: «Quando Mussolini urlava contro la guerra, era come se sputasse fuoco. Non parlava da politico, parlava come uno di noi.»

La polizia osservava, annotava, segnalava. Ma le parole correvano troppo veloci per essere fermate.


L’arresto del 1911

Il governo non poteva tollerare quell’agitazione continua. A ottobre 1911, durante uno sciopero e una manifestazione contro la guerra, Benito fu arrestato con l’accusa di istigazione alla violenza e resistenza.

Rosa pianse, come sempre. Alessandro, orgoglioso, diceva agli amici: «È mio figlio: se è in galera, vuol dire che ha ragione.»

Mussolini fu condotto di nuovo nel carcere di Forlì. Ma non era più il ventenne inesperto della Svizzera, né il ventiseienne che scriveva La mia vita: adesso era un leader socialista in formazione, seguito e osservato da tutta la Romagna.


Il carcere come tribuna

Il carcere del 1911 non era lo stesso di due anni prima. Questa volta Benito aveva già fama, e i secondini lo guardavano con sospetto. Una guardia lo ammoniva: «Non provare a fare comizi anche qui dentro.» Benito rispondeva secco: «Finché avrò voce, parlerò. Anche ai muri.»

Condivideva la cella con un vecchio anarchico dai capelli bianchi, arrestato anni prima per aver partecipato a una rivolta. L’uomo gli raccontava storie di barricate, di bandiere rosse, di sogni infranti. Benito lo ascoltava con rispetto, quasi come si ascolta un maestro. «Voi siete la gioventù», gli disse l’anziano, «non fate il nostro errore: non tacete mai.»

Le notti erano gelide, il pagliericcio duro, l’umidità mordeva le ossa. Ma Mussolini non si lamentava. Scriveva a lume di candela, con le dita intorpidite, annotando frasi che i compagni avrebbero fatto uscire oltre le sbarre. Ogni riga, ogni articolo spedito all’esterno era una sfida: la prova che neppure la prigione poteva mettergli la museruola.

Un testo recitava:
“Mentre il popolo muore di miseria, il governo spende miliardi per mandare i suoi figli a morire nelle sabbie africane.”

La cella diventava tribuna. I suoi articoli uscivano comunque, riportati dai compagni e pubblicati sul giornale. Ogni parola scritta da dietro le sbarre accresceva la sua fama di socialista irriducibile.


Il profilo dell’antimilitarista

Gli anni della guerra di Libia segnarono definitivamente il volto politico di Mussolini. Se fino al 1910 era stato agit-prop locale, tra 1911 e 1912 diventò figura riconosciuta a livello nazionale.

Mussolini stesso non arretrava:
“Il militarismo è la religione dei padroni. Noi, socialisti, abbiamo il dovere di predicare la guerra alla guerra.”

Questa formula – “guerra alla guerra” – diventò il suo marchio di fabbrica.


Le tensioni nel Partito

Non tutti, nel Partito Socialista, lo applaudivano. I riformisti temevano che la sua intransigenza danneggiasse il movimento. Mussolini replicava con sarcasmo:

“I riformisti sono pronti a sfilare contro la guerra… ma senza disturbare troppo i generali. Noi no: noi disturbiamo, noi gridiamo, noi paghiamo di persona.”

Questa spaccatura interna, che allora sembrava solo tattica, avrebbe aperto la strada al suo ruolo futuro.


Il ritorno alla piazza

Dopo alcuni mesi, Mussolini fu rilasciato. Tornò alle piazze come un eroe. Non solo aveva resistito, ma aveva scritto e parlato dal carcere. Per i suoi compagni era la prova che non si poteva piegare.

Lo accoglievano con cori: «Viva Mussolini! Abbasso la guerra!»

E lui, con il pugno alzato, rispondeva: «Compagni, non basta gridare. Bisogna organizzare. La lotta è appena cominciata.»


Verso il Congresso di Reggio Emilia

La guerra di Libia non si fermò. Ma Mussolini, con i suoi articoli e i suoi comizi, era diventato simbolo di resistenza socialista. Nel 1912 fu invitato al congresso nazionale del Partito Socialista a Reggio Emilia. Lì, la sua voce non fu più solo quella di un agitatore romagnolo: divenne voce nazionale.

Un delegato lo descrisse così: «Entrò giovane, alto, con lo sguardo che non abbassava mai. Parlò con foga, e anche i più scettici dovettero ammettere che lì c’era un capo.»


Conclusione

La guerra di Libia non fermò la sua ascesa, anzi la accelerò. Benito Mussolini usciva dal carcere più forte di quando vi era entrato: la cella lo aveva reso un tribuno nazionale, e le sue parole, scritte dietro le sbarre, correvano ormai oltre la Romagna.

Il giovane socialista aveva trasformato la protesta in programma, l’indignazione in metodo politico. La sua voce contro la guerra lo aveva reso simbolo di una generazione che rifiutava di sacrificarsi per gli interessi dei padroni e dei generali. In un’Italia che applaudiva il colonialismo, Mussolini scelse di gridare più forte, e proprio per questo venne ascoltato.

Il 1912 lo attendeva con una sfida nuova: il congresso di Reggio Emilia, dove avrebbe incrociato i grandi nomi del socialismo italiano. Non più soltanto tribuno romagnolo, ma figura destinata a pesare sul futuro del movimento, Benito stava varcando la soglia di una nuova stagione.

Era ancora giovane, ancora irruente, ma ormai nessuno poteva più ignorarlo.

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