Capitolo X – La Settimana Rossa (1914)

L’Italia si avvicinava a una tempesta. A giugno del 1914 il paese era scosso da tensioni sociali, scioperi, rabbia operaia. Bastò una scintilla per incendiare tutto: l’uccisione di tre giovani manifestanti ad Ancona da parte dei carabinieri. Da quel momento, la protesta dilagò e si trasformò in ciò che i giornali avrebbero chiamato la Settimana Rossa.


Milano, 1914

Mussolini aveva ormai 31 anni ed era direttore dell’Avanti! da due anni. Sapeva che la guerra di Libia aveva lasciato ferite aperte e che la miseria stringeva le famiglie italiane. Ogni giorno in redazione riceveva lettere di operai, contadini, donne che chiedevano giustizia.

Quando arrivò la notizia dei morti di Ancona, non esitò un istante. Scrisse un editoriale infuocato che cominciava così:

“Non è più tempo di parole. È tempo di azione. Se il sangue operaio viene versato, allora il proletariato deve rispondere con la forza della sua unità.”

Quelle righe si diffusero come benzina sul fuoco.


Le piazze in rivolta

La Romagna, le Marche, l’Emilia si accesero per prime. Scioperi generali, manifestazioni spontanee, assalti ai municipi. In molte città le bandiere rosse sventolavano sui campanili al posto del tricolore.

Le strade si riempivano di barricate improvvisate fatte di carri rovesciati, le campane suonavano a martello come in tempo di guerra, i carabinieri caricavano a cavallo sparando colpi in aria. Il clima era elettrico: la folla gridava “Abbasso la guerra!” e cantava inni socialisti a pugni alzati.

A Forlì, gli operai ricordavano ancora le arringhe del giovane Mussolini. Ora parlavano di lui come del simbolo della rivolta. Un compagno disse: «Non è solo un direttore di giornale. È uno che ci ha insegnato a non piegarci.»


L’editoriale che incendiò l’Italia

Nei giorni della Settimana Rossa, l’Avanti! pubblicava articoli che suonavano come comandi. Mussolini scrisse:

“Abbiamo il dovere di rendere questo moto non passeggero, ma permanente. Non più scioperi effimeri, ma una lotta che travolga le istituzioni borghesi.”

Il linguaggio era talmente duro che perfino all’interno del Partito Socialista qualcuno iniziò a temere. Ma per la base era musica.


Tra sogno e realtà

Per alcuni giorni l’Italia sembrò davvero sull’orlo di una rivoluzione. Le piazze erano piene, i treni fermi, i municipi occupati. Le parole d’ordine si mescolavano: “Repubblica!”, “Abbasso la guerra!”, “Viva il socialismo!”.

Mussolini scriveva con trasporto:
“Il popolo sente di poter finalmente rovesciare l’ordine che lo opprime. Se il proletariato saprà resistere unito, nulla potrà fermarlo.”

Ma la realtà era più dura. Il movimento mancava di coordinamento, i sindacati esitavano, il Partito non aveva un piano. Dopo pochi giorni, la fiamma cominciò a spegnersi.


La delusione

Quando lo sciopero generale si concluse, l’Italia tornò alla normalità. Ma nulla era più come prima.

Mussolini lo ammise con amarezza:
“Abbiamo avuto tra le mani la rivoluzione, e non abbiamo saputo tenerla.”

Era un autogiudizio severo, ma rivelava quanto fosse rimasto scottato. Per lui, la Settimana Rossa fu insieme apogeo e fallimento: il momento in cui aveva visto il popolo ribellarsi davvero, e nello stesso tempo l’incapacità del socialismo italiano di trasformare la rivolta in rivoluzione.


L’uomo e il capo

Per i compagni, Mussolini uscì dalla Settimana Rossa con un prestigio accresciuto. Non era stato lui a organizzare tutto, ma i suoi articoli e i suoi discorsi avevano dato voce al fermento. Da Milano a Ancona, da Forlì a Bologna, il suo nome correva come quello di un capo.

Scrisse ancora:
“Il popolo non dimenticherà. Ogni goccia di sangue versato ad Ancona è un seme che germoglierà nella coscienza proletaria.”


Un presagio di guerra

Quell’estate del 1914, mentre l’Italia si leccava le ferite della Settimana Rossa, l’Europa precipitava nella guerra mondiale. A Sarajevo, l’arciduca Francesco Ferdinando veniva assassinato, e il domino delle alleanze cominciava a crollare.

Mussolini, ancora antimilitarista, scrisse parole che oggi suonano come un avvertimento:
“Se l’Italia entrerà in guerra, sarà guerra non contro stranieri, ma contro se stessa. I figli del popolo moriranno per i padroni.”

Non immaginava ancora che, di lì a pochi mesi, la sua posizione sarebbe mutata radicalmente. Ma in quel giugno del 1914, Benito Mussolini era ancora l’uomo della Settimana Rossa: il socialista rivoluzionario che aveva creduto, per un istante, che la rivoluzione fosse davvero a portata di mano.


Conclusione

La Settimana Rossa si spense come un fuoco breve, incapace di trasformarsi in rivoluzione. Eppure, nel cuore di Mussolini rimase l’impronta di quei giorni febbrili: la sensazione di aver toccato con mano la forza del popolo e, insieme, la fragilità del socialismo italiano.

Capì che l’entusiasmo non bastava, che senza una guida decisa e una struttura disciplinata ogni rivolta era destinata a consumarsi. Da quella delusione nacque in lui un nuovo interrogativo: quale strada avrebbe dovuto imboccare il movimento per non fallire ancora?

Il 1914 era appena iniziato, e l’Europa si preparava a entrare nel vortice della guerra. Mussolini, reduce dalla sua prima vera prova politica, si trovava davanti a un bivio che avrebbe cambiato non solo la sua vita, ma il destino dell’Italia.


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