Capitolo XI – Dalla neutralità all’interventismo (1914-1915)

La Settimana Rossa era appena svanita quando l’Europa precipitò nel baratro. A Sarajevo, il 28 giugno 1914, l’arciduca Francesco Ferdinando cadde sotto i colpi di Gavrilo Princip. Da quel momento, la guerra si diffuse come incendio: l’Austria contro la Serbia, la Germania contro la Russia, poi la Francia, l’Inghilterra… In poche settimane, il continente intero fu trascinato nella catastrofe.

L’Italia esitava. Il governo Giolitti parlava di neutralità, il Partito Socialista proclamava la parola d’ordine: “né aderire né sabotare”. Per Mussolini, allora direttore dell’Avanti!, il compito era chiaro: sostenere la neutralità, denunciare la guerra come macelleria al servizio dei padroni.


Il neutralista infuocato

All’inizio del conflitto, Mussolini scrisse con fermezza:
“Questa guerra non è la nostra guerra. È la guerra dei re, dei banchieri, degli industriali. Al proletariato non resta che rifiutarsi di essere carne da cannone.”

L’Avanti! divenne il giornale del neutralismo, e le sue parole correvano tra fabbriche e campagne. “Guerra alla guerra” era ancora lo slogan. Gli operai, i contadini, le donne che temevano di perdere figli e mariti si riconoscevano in quelle frasi.

Per alcuni mesi Mussolini sembrava lo stesso di sempre: il socialista rivoluzionario che ruggiva contro padroni e monarchie.


Il dubbio che cresce

Eppure, dentro di lui, qualcosa cominciava a cambiare. La Settimana Rossa gli aveva mostrato che senza uno shock, senza un evento capace di spezzare il vecchio ordine, la rivoluzione era impossibile. Guardava la guerra con occhi diversi: sì, era una carneficina, ma forse anche un terremoto che avrebbe potuto distruggere i troni e riplasmare i popoli.

Scrisse, con cautela:
“La neutralità non basta a liberarci. Forse, la guerra potrà fare ciò che noi non siamo riusciti a fare.”

Era una frase che lasciava trapelare il dubbio. Alcuni compagni lo lessero con inquietudine: stava vacillando?


La svolta

Tra l’autunno e l’inverno del 1914, il dubbio divenne certezza. Mussolini cominciò a sostenere che l’Italia dovesse entrare in guerra, non dalla parte degli imperi centrali, ma al fianco della Francia e dell’Inghilterra, contro l’Austria.

Scrisse in un editoriale che fece scalpore:
“Ho creduto e credo che questa guerra non sia soltanto un avvenimento, ma una rivoluzione. La più grande delle rivoluzioni.”

Per lui, il conflitto mondiale era il colpo di piccone che avrebbe abbattuto il vecchio ordine europeo. La guerra, da condannare, diventava da invocare.


La rottura col Partito

Il Partito Socialista rimase fermo sulla neutralità assoluta. L’Avanti! non poteva permettersi un direttore che scriveva l’opposto. Le prime proteste arrivarono dalle sezioni locali: “Mussolini tradisce la classe operaia”, si leggeva nei resoconti.

La direzione del PSI convocò un incontro a Milano. La sala era gremita, l’aria tesa. Alcuni delegati fischiarono il suo nome ancor prima che parlasse. Gli accusatori lo incalzarono: «Da rivoluzionario sei diventato nazionalista!» «Ti sei venduto ai padroni!»

Mussolini replicò con voce tonante:
“Non sono né nazionalista né rinnegato. Io vedo nella guerra l’occasione per rovesciare i troni e aprire le porte alla rivoluzione sociale.”

Le sue parole rimbombarono nella sala, ma non bastarono. Fischi, urla, applausi isolati. Nel novembre 1914 fu costretto a dimettersi dalla direzione dell’Avanti! e poco dopo espulso dal Partito Socialista.


Le accuse di tradimento

La notizia fece rumore in tutta Italia. Per i socialisti rimasti fedeli al neutralismo, Mussolini era un traditore. Le caricature lo dipingevano come uomo venduto alla borghesia. Gli ex compagni di Forlì scrissero una lettera durissima: “Hai rinnegato il proletariato per piegarti ai padroni.”

Mussolini non si difese: attaccò.
“Io non ho tradito. Voi siete ciechi. Volete restare prigionieri dell’attesa, mentre la storia marcia a passi da gigante. La guerra è la fiamma che consumerà il vecchio mondo.”


La nascita del Popolo d’Italia

Espulso e isolato, avrebbe potuto scomparire. Invece fece il contrario: fondò un nuovo giornale. Il 15 novembre 1914 uscì a Milano il primo numero del Popolo d’Italia.

Il titolo era già un manifesto: non più Avanti! (voce del PSI), ma Popolo d’Italia, una testata che si rivolgeva a tutti, non solo ai socialisti. La redazione era modesta, ma animata da febbre militante. La tiratura iniziale fu limitata, poche migliaia di copie, ma crebbe rapidamente: il giornale correva nelle mani degli interventisti, dei giovani, degli operai che non volevano più restare fermi.

Nell’editoriale di apertura dichiarò:
“Il nostro giornale sarà socialista, ma libero. Sarà il giornale di chi vuole la guerra per fare l’Italia più grande e più giusta.”

Dietro il giornale c’erano finanziamenti nuovi, provenienti da ambienti industriali e interventisti. I suoi ex compagni lo accusarono di essersi venduto ai capitalisti. Mussolini rispose:
“I soldi non comprano le idee. Le idee camminano da sole.”


Rachele e la vita privata

In quei mesi convulsi, Rachele rimase al suo fianco. Milano non era Forlì: la vita era più dura, più costosa, più anonima. Vivevano in alloggi modesti, contando ogni spesa. Ma nelle lettere private Mussolini scriveva di lei con un tono diverso da quello degli articoli:
“Rachele è la mia compagna, la mia certezza, la mia radice.”

Nelle battaglie che lo dividevano dal mondo intero, Rachele era l’unico punto fermo.


Un uomo nuovo

Il 1915 lo vide ormai trasformato. Non era più il giovane romagnolo delle piazze contadine, né il direttore dell’Avanti! che gridava contro la guerra. Era il capo di un giornale interventista, seguito da un pubblico nuovo e più vasto.

Le sue parole erano cambiate:
“La neutralità è la morte della nazione. L’intervento è la sua resurrezione.”

La rottura col socialismo tradizionale era compiuta.


Conclusione

Il passaggio dalla neutralità all’interventismo fu, per Mussolini, una frattura senza ritorno. In pochi mesi aveva abbandonato le certezze del socialismo rivoluzionario per abbracciare una visione diversa, nella quale la guerra non era più soltanto una tragedia, ma un’opportunità di trasformazione storica.

La sua rottura con il Partito Socialista non fu soltanto politica: segnò la fine di un’appartenenza, l’inizio di un percorso solitario, ma destinato a crescere. Con il Popolo d’Italia egli trovò la sua nuova tribuna, da cui avrebbe parlato a un pubblico più ampio, più nazionale che di classe.

Tra il 1914 e il 1915 nacque un uomo nuovo: non più il direttore di un giornale socialista, ma il leader di un movimento in formazione. La guerra era ancora alle porte per l’Italia, ma Mussolini si era già messo in marcia.

Vai capitolo 10 – Vai capitolo 12