Il maggio radioso del 1915 aveva portato l’Italia in guerra. Per Mussolini non fu solo una vittoria politica: era una chiamata personale. Dopo mesi passati a scrivere articoli infuocati sul Popolo d’Italia, sentiva il bisogno di dimostrare che le sue parole non erano soltanto inchiostro.

L’arruolamento
Aveva già trentadue anni quando decise di arruolarsi volontario. Non era un gesto scontato: molti degli intellettuali interventisti preferivano restare dietro le scrivanie, a scrivere e a discutere. Ma Mussolini no: voleva dimostrare di essere diverso, di “pagare di persona”.
Quando si presentò al distretto militare, firmò i moduli con il suo solito tratto deciso. Ai giornalisti che lo fermarono all’uscita, disse parole che diventarono titoli sui quotidiani:
“Ho predicato la guerra. Ora vado a farla.”
Fu assegnato al 91º Reggimento fanteria, la celebre Brigata Calabria.
La vita di trincea
Il fronte lo accolse con il suo carico di fango, gelo e paura. Le trincee erano scavate lungo l’Isonzo, tra montagne aspre e vallate scosse dal rumore continuo delle artiglierie.
Mussolini non era un soldato addestrato: fino a pochi mesi prima scriveva editoriali a Milano. Ma imparò presto a marciare, scavare, sopportare. Un compagno lo descrisse così: “Non si lamentava mai. Era burbero, ma divideva il pane e il vino con noi come se fossimo fratelli.”
Nei momenti di quiete tirava fuori il taccuino e annotava riflessioni. In una lettera scrisse:
“La guerra è una fornace. Brucia uomini e idee. Ma dentro questa fornace si forgia l’acciaio del domani.”
Il contatto con i soldati
La vita di trincea gli diede qualcosa che non aveva mai avuto davvero: un contatto diretto e continuo con uomini del popolo, operai e contadini provenienti da tutta Italia.
Con loro non parlava più di congressi o di rivoluzioni astratte, ma di fame, di freddo, di sopravvivenza. E questo lo segnò profondamente: imparò a vedere la politica non solo come teoria, ma come voce concreta di una comunità di destino.
Molti soldati lo rispettavano, anche senza condividere le sue idee. Dicevano: “Almeno lui non è rimasto a casa. È qui con noi.”
Il Popolo d’Italia dal fronte
Anche dal fronte, Mussolini non smise di scrivere. Continuava a inviare articoli al Popolo d’Italia, che usciva regolarmente a Milano. I suoi testi erano brevi, taglienti, scritti tra un turno e l’altro di guardia.
In uno scrisse:
“Il fucile e la penna servono alla stessa causa. Con l’uno e con l’altra combattiamo per un’Italia nuova.”
Il giornale lo presentava come “il direttore al fronte”, alimentando la sua immagine di intellettuale-soldato.
La ferita
Il 23 febbraio 1917, durante un’esercitazione a Dosso di Azzano, avvenne l’incidente che cambiò la sua esperienza militare. Una bomba da mortaio esplose prematuramente, ferendolo gravemente.
Fu investito da oltre quaranta schegge. Cadde a terra tra il fumo e le urla, credendosi spacciato. Venne trasportato all’ospedale militare di Verona, dove iniziò una lunga convalescenza.
In una delle lettere dal letto d’ospedale scrisse con tono misto di orgoglio e amarezza:
“Ho pagato. Il mio sangue è la prova della mia fede.”
Il congedo
Dopo mesi di cure, Mussolini non poté più tornare al fronte. Le ferite lo avevano reso inabile al combattimento. Ricevette il congedo e tornò a Milano, accolto da amici e sostenitori come un eroe.
Il Popolo d’Italia lo celebrò come “il direttore che non ha solo parlato, ma combattuto”. L’immagine dell’intellettuale che aveva imbracciato il fucile rafforzò la sua popolarità.
L’uomo che torna
Quando rientrò in città, non era più lo stesso. Portava nel corpo i segni della guerra e negli occhi una nuova durezza. Non era più soltanto il polemista, né il ribelle espulso dal PSI. Era un uomo che poteva dire: “Ho condiviso la trincea, ho versato il mio sangue.”
Questo lo distingueva da tanti altri leader politici, e gli diede un credito speciale presso ex combattenti e reduci, un capitale umano che avrebbe avuto grande peso negli anni successivi.
Conclusione del capitolo
Il 1917 segnò la fine della sua esperienza al fronte e l’inizio di una nuova trasformazione.
Mussolini, il soldato ferito, tornava a Milano con un corpo segnato e un’anima accesa.
Scrisse:
“Ho visto morire e soffrire. Ho visto uomini semplici trasformarsi in eroi. Da questa fornace uscirà l’Italia nuova, e io sarò parte della sua creazione.”
Da quel momento, il giovane rivoluzionario della Romagna non sarebbe più stato lo stesso:
l’agitatore socialista lasciava spazio al combattente deciso a costruire un nuovo destino nazionale.
Il sangue versato al fronte diventava per lui una prova, una missione, una giustificazione morale.
Non era più soltanto un uomo in cerca d’idee — era un uomo in cerca di potere.
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