
Quando Benito Mussolini tornò a Milano nel 1917, il suo corpo portava i segni della guerra: oltre quaranta schegge conficcate, mesi di ospedale, un congedo che lo aveva escluso dal fronte. Ma agli occhi di molti non era un sopravvissuto, era un combattente che aveva pagato con la carne il prezzo delle sue idee.
Il ritorno al giornale
Il Popolo d’Italia lo accolse come un generale di carta. I collaboratori lo abbracciarono, i tipografi lo salutarono con rispetto. Mussolini si rimise subito al lavoro.
Ogni mattina arrivava in redazione con passo deciso, ancora claudicante ma instancabile. Sedeva alla scrivania e dettava articoli come comandi militari. Le sue parole non erano più quelle del socialista ribelle degli anni giovanili: ora erano parole di un uomo che aveva visto la guerra e intendeva trasformarla in leva politica.
Scrisse:
“Ho lasciato sangue e carne nelle trincee. Non posso parlare da teorico, ma da uomo che ha vissuto la fornace. E dico che l’Italia deve uscire da questa guerra non solo vittoriosa, ma diversa.”
Caporetto
Il 24 ottobre 1917 arrivò la notizia che sconvolse l’Italia: la disfatta di Caporetto. L’esercito austro-tedesco aveva sfondato il fronte, e le truppe italiane si ritiravano nel caos. Centinaia di migliaia di soldati fuggivano, lasciando sul terreno armi e compagni.
L’Italia intera fu colpita da un senso di disastro. Migliaia di famiglie abbandonarono le case, colonne di sfollati intasarono le strade del Veneto e del Friuli. I giornali parlavano di “vergogna nazionale”. A Milano e Torino si temeva addirittura un crollo dello Stato.
Mussolini reagì con rabbia e lucidità. Scrisse un editoriale che fece scalpore:
“Non è il popolo ad aver tradito. Non sono i soldati. Sono i generali ciechi, i politici imbelli, i burocrati corrotti. Caporetto non è la disfatta dell’Italia: è la disfatta di chi la governa.”
Era un attacco frontale, che parlava al cuore dei reduci e degli italiani umiliati.
Una nuova voce
Il Popolo d’Italia crebbe di tiratura. Non era più soltanto il foglio interventista che aveva invocato la guerra: era diventato il giornale dei combattenti, dei reduci, di chi chiedeva vendetta e rinnovamento.
I titoli erano sempre più aggressivi:
- “Via i generali incapaci!”
- “Un’Italia nuova deve nascere dal sangue versato.”
- “Mai più la vergogna di Caporetto!”
Mussolini capiva che quel linguaggio accendeva le piazze. Ogni articolo era scritto come un proclama, ogni numero come una battaglia.
Il rapporto coi reduci
Tra il 1917 e il 1918 Milano vide tornare migliaia di soldati dal fronte, stanchi, feriti, disillusi. Molti di loro cercavano qualcuno che desse voce alla loro rabbia.
Mussolini li incontrava nelle osterie, nei circoli, nelle piazze. Li ascoltava e poi parlava, con lo stesso tono che usava negli articoli: duro, diretto, senza giri di parole.
Un reduce ricordò:
“Parlava come uno di noi. Non diceva ‘voi soldati’, ma ‘noi soldati’. Questo lo rendeva diverso.”
Per quei giovani uomini, che si sentivano traditi e dimenticati, Mussolini diventava simbolo di riscatto.
L’uso della guerra come mito
Per Mussolini, la guerra non era solo un evento politico o militare: era diventata un mito fondativo. Non parlava di vittorie o sconfitte come numeri, ma come simboli. Caporetto era il simbolo della decadenza del vecchio Stato liberale; Vittorio Veneto sarebbe dovuto diventare il simbolo della rinascita.
Scrisse:
“La guerra è stata la più grande maestra. Essa ha insegnato al popolo italiano ciò che i decenni di pace non avevano mai insegnato: la disciplina, la forza, il sacrificio.”
Era un linguaggio nuovo, che anticipava già le retoriche che avrebbero accompagnato la sua ascesa.
Il 1918 e la fine del conflitto
Con il 1918 la guerra volgeva al termine. Dopo mesi di sforzi e di sangue, l’esercito italiano si riorganizzò sul Piave e ottenne la vittoria finale a Vittorio Veneto.
Mussolini celebrò quell’evento come un atto di resurrezione nazionale:
“Abbiamo riscattato Caporetto. L’Italia, nata in ritardo nella storia, oggi siede tra le grandi nazioni. Ma questa vittoria non può essere fine: deve essere inizio.”
La sua insistenza era chiara: la guerra non doveva chiudere una parentesi, ma aprire un’epoca nuova.
Semi di futuro
Negli articoli del 1918 si leggono già i germi del pensiero che avrebbe portato al fascismo. Mussolini parlava sempre più spesso di “uomini nuovi”, di “comunità forgiata dal sacrificio”, di “Italia che non tornerà mai più alla debolezza di prima”.
Scrisse:
“Dalla guerra uscirà una generazione temprata. E questa generazione non accetterà più il vecchio parlamentarismo, le chiacchiere sterili, la corruzione delle istituzioni. Essa vorrà azione.”
Conclusione del capitolo
Tra il 1917 e il 1918, Mussolini passò da soldato ferito a profeta politico. Il Popolo d’Italia divenne la sua arma principale, e Caporetto, con la sua disfatta, il terreno fertile per attaccare lo Stato liberale e presentarsi come voce del popolo tradito.
Quando la guerra finì, non era più un emarginato espulso dal PSI: era un ex combattente, un giornalista influente, un leader che sapeva parlare ai reduci e ai delusi.
Il giovane di Dovia, che un tempo sfidava i maestri di scuola e i padroni nelle piazze, ora preparava il terreno per sfidare l’intera classe dirigente italiana.
Il seme era stato gettato. E presto avrebbe trovato terreno per germogliare.