
Dalla stazione al Savoy, tra lingue sconosciute e una nuova casa.
Quando il treno entrò alla stazione di Francoforte, era ormai l’alba. Stanchi e assonnati, ma con il cuore in tumulto, Matteo e Antonio scesero dal convoglio. L’aria era diversa: fredda, umida, impregnata di odori nuovi, tra fumo di carbone e profumi sconosciuti delle prime colazioni tedesche.
Non passò molto tempo che un uomo, più grande di loro, si avvicinò con passo sicuro.
— Siete i ragazzi per l’Hotel Savoy? — chiese con voce ferma.
Matteo e Antonio si guardarono, poi annuirono. Si presentarono a turno e l’uomo, con un sorriso discreto, spiegò che era stato mandato dall’amico del secondo maître conosciuto all’Isola d’Elba. Il destino, ancora una volta, aveva incrociato le loro strade attraverso una rete di conoscenze che sembrava non spezzarsi mai.
Poiché era ancora presto, l’uomo li portò in un locale vicino alla stazione per fare colazione. Seduti a un tavolo semplice, con davanti caffè caldo e panini imburrati, Matteo assaporò per la prima volta la sensazione di trovarsi davvero all’estero: lingue nuove intorno a lui, volti sconosciuti, un mondo che sembrava girare più veloce.
Dopo le sette, a piedi, si incamminarono verso l’albergo. Il Savoy non era lontano dalla stazione, e quando si fermarono davanti all’ingresso imponente, Matteo sentì un brivido corrergli lungo la schiena: quello sarebbe stato il suo nuovo mondo.
Entrarono e furono presentati al portiere, che li accolse con garbo e li fece accomodare nella hall. Lì, tra poltrone eleganti e moquette soffice, attesero l’arrivo del capo del personale.

Il direttore, appena giunto, fece chiamare un cameriere che parlava bene l’italiano: sarebbe stato il loro interprete. Consegnero i documenti, firmarono i primi fogli richiesti e furono accompagnati in un condominio non distante dall’albergo, dove venne assegnata loro una camera da condividere.
A mezzogiorno, come stabilito, tornarono in albergo. Si presentarono in sala e furono ricevuti dal maître, che li accolse con un sorriso deciso. Parlava un ottimo italiano: spiegò infatti di aver lavorato per diverso tempo in un albergo romano.
Il maître descrisse il funzionamento della sala e i primi compiti che avrebbero dovuto svolgere. Considerato che non parlavano il tedesco, decise di agire con prudenza. Antonio, poco più anziano e con un’aria più sicura, fu assegnato a un rango. Matteo, invece, venne destinato all’office: riordinare, lavare i bicchieri, dare supporto a chiunque avesse bisogno.
All’inizio, per Matteo, fu come un piccolo passo indietro. Dopo i progressi fatti in Italia, ritrovarsi a svolgere mansioni più umili poteva sembrare una retrocessione. Ma col tempo capì che era la scelta giusta: non conoscendo la lingua, quel ruolo gli permetteva di osservare, imparare, inserirsi senza commettere errori. Dopo pochi giorni, ne fu persino contento.
C’era però una strana sensazione che lo accompagnava in quelle prime ore: sentire tante voci intorno a sé e non capire nulla. Ogni ordine, ogni frase, ogni parola tedesca gli scivolava addosso come un suono incomprensibile. Tutto era nuovo, tutto diverso, e nello stesso tempo incredibilmente interessante.
In Italia riusciva almeno a cavarsela: un “buongiorno”, un “come va”, qualche frase di cortesia. Lì, invece, si accorse di non riuscire a dire quasi niente. Ma non si spaventò: pensò che fosse normale, che il tempo e l’impegno avrebbero fatto la loro parte.
La giornata di lavoro seguiva orari precisi: si entrava dopo le dieci, una volta terminate le colazioni, e si restava fino alle tre circa. Poi una pausa, e di nuovo in servizio dalle sei e mezza alle dieci e mezza di sera. Un ritmo nuovo, che scandiva ogni ora con puntualità.
Terminato il primo turno, tornarono al loro alloggio. Guardandosi intorno, Matteo osservava ogni cosa con curiosità: strade, insegne, volti. Poco distante dalla loro casa trovarono un piccolo ristorante con un’insegna familiare: “Casa Mia”. Non resistettero alla tentazione e, sistemate le loro cose, vi andarono a pranzare. Era un ristorantino italiano, gestito da due fratelli ciociari: simpatici, cordiali, con quella calda accoglienza che fece subito sentire Matteo e Antonio meno stranieri.
La sera, invece, decisero di sfruttare la piccola cucina a disposizione nell’alloggio. Andarono dal macellaio lì vicino e comprarono due bistecche: dal colore sembrava vitello, tenero e invitante. Cenare così, con semplicità, diede loro un senso di casa.
Il condominio in cui abitavano era sempre animato: un via vai di persone, lavoratori, famiglie. Con il tempo, Matteo e Antonio iniziarono a conoscere qualcuno, scambiando cenni e sorrisi nei corridoi.
Dopo una breve passeggiata serale, rientrarono stanchi ma soddisfatti. A letto presto, pronti per ricominciare il giorno dopo. La Germania li aveva accolti così: con fatica, con novità, ma anche con la certezza che stavano vivendo una pagina indimenticabile della loro giovinezza.