
Basta equivoci: a scuola non si fa politica di parte, si insegna. Ed è proprio lì che nasce la cittadinanza.
Una volta non c’erano dubbi: ciò che accadeva in classe si chiamava insegnamento.
Poi, col passare degli anni, si è iniziato a parlare di politica a scuola. Il termine, però, è stato frainteso e travisato: per molti ha cominciato a significare propaganda, comizi mascherati da lezione, tentativi di indottrinamento.
Da qui l’equivoco. E da qui anche la polemica infinita: ogni volta che si nomina la parola “politica”, c’è chi immagina insegnanti che impongono la propria visione del mondo agli studenti.
La verità è molto più semplice. A scuola non si fa politica di parte. Si fa insegnamento.
👉 Insegnare è leggere i versi di Caproni o di Dickinson, e scoprire insieme il valore della poesia.
👉 Insegnare è ricordare Falcone e Borsellino, Malala o l’orologio fermo della stazione di Bologna, perché la memoria forma coscienze.
👉 Insegnare è fermarsi davanti a un femminicidio e discutere con i ragazzi di ciò che accade nel Paese.
👉 Insegnare è dare strumenti linguistici e culturali per non cadere vittime di manipolazioni e slogan vuoti.
Tutto questo non è politica nel senso ridotto e divisivo del termine: è educazione. È scuola. È insegnamento.
Naturalmente, le mele marce ci sono ovunque: a destra, a sinistra, sopra, sotto, di lato e perfino di traverso. Ma questo non deve oscurare la verità: la stragrande maggioranza dei docenti lavora con serietà e dedizione, e il loro obiettivo non è indottrinare, ma educare.
Perciò basta equivoci: torniamo a usare la parola giusta.
Non “fare politica in classe”, ma insegnare.
È l’unico modo per eliminare incomprensioni e restituire dignità a ciò che la scuola fa da sempre: formare cittadini liberi, consapevoli e capaci di guardare al futuro con la propria testa.