Dal cittadino alla poltrona: il rischio di dimenticare le origini

Quando il potere allontana dalla realtà quotidiana


Introduzione

Ogni volta che un cittadino diventa amministratore, sindaco, consigliere o parlamentare, nasce la stessa domanda: perché da cittadini si parla con schiettezza, mentre da eletti tutto cambia?
La risposta non è semplice, ma parte da un fenomeno che accomuna quasi tutti: la distanza. Una volta conquistata la poltrona, il contatto con la vita di tutti i giorni tende ad affievolirsi. Non per forza per cattiva volontà: spesso è il sistema stesso che induce a vivere dentro una bolla fatta di uffici, protocolli e agende piene.

Il rischio, però, è grave: dimenticare le proprie origini. E quando chi governa perde il legame con la realtà quotidiana, si rompe quel filo di fiducia che lega i cittadini ai propri rappresentanti.


La libertà del cittadino

Da cittadini si ha la libertà di parlare senza filtri. Al bar, in piazza, sui social, in famiglia: si critica, si osserva, si giudica con spontaneità. Nessuno impone vincoli di partito, di coalizione o di equilibrio. Un cittadino non deve calcolare ogni parola, non deve tenere insieme alleati, non deve misurare le conseguenze politiche di una frase.

La vita quotidiana offre un terreno diretto: il pane che aumenta di prezzo, l’autobus che non passa, la strada piena di buche, la scuola che manca di insegnanti. Problemi concreti, che alimentano un linguaggio concreto.


Il cambio di prospettiva sulla poltrona

Quando invece si arriva a un incarico pubblico, tutto cambia. Non si parla più solo a titolo personale: ogni frase diventa ufficiale, ogni parola è riportata, ogni dichiarazione pesa sugli equilibri politici. Ci si trova a dover mediare, a cercare compromessi, a mantenere rapporti delicati con partiti, alleati, oppositori, persino con potenziali sponsor.

Quello che prima era uno sfogo diretto, diventa un comunicato; ciò che prima era franchezza, diventa prudenza. Non si tratta necessariamente di malafede: è il contesto che obbliga a “dosare” le parole. Ma agli occhi dei cittadini questo appare come ipocrisia o doppiezza.


La corazza del ruolo

Ed ecco che emerge il punto più delicato: la corazza.
Il ruolo istituzionale, che dovrebbe essere un abito temporaneo da indossare per servire la comunità, rischia di trasformarsi in una vera e propria armatura. Un’armatura che difende da critiche e attacchi, ma che al tempo stesso isola.

Chi indossa questa corazza non vive più la quotidianità dei cittadini: non fa la fila all’ufficio postale, non aspetta il bus sotto la pioggia, non discute con il vicino di casa per la spazzatura. Si muove in auto blu, firma documenti su carta intestata, riceve persone su appuntamento. Tutto diventa più distante, più formale, meno spontaneo.


La distanza che logora la fiducia

Il risultato è che la politica finisce per parlare un linguaggio diverso da quello della gente. Mentre i cittadini chiedono risposte semplici, i rappresentanti parlano di iter burocratici, bilanci, delibere, conferenze dei servizi. È un linguaggio che spesso non comunica, che genera frustrazione e sfiducia.

La distanza, col tempo, logora il rapporto di fiducia. I cittadini iniziano a percepire i propri amministratori come figure lontane, incapaci di capire la realtà concreta. È in questo solco che si alimenta la rabbia, il disincanto e, in ultima analisi, l’astensionismo.


Tornare alle origini: un dovere morale

Eppure, la soluzione è meno complessa di quanto sembri. Chi occupa una poltrona non dovrebbe mai smettere di fare i gesti semplici del cittadino:

  • andare al bar del paese e ascoltare senza filtri;
  • camminare per strada senza auto di servizio;
  • fare la spesa al supermercato;
  • vivere i disagi comuni senza delegarli sempre agli altri.

Non si tratta di farsi vedere, ma di non dimenticare. Un amministratore che mantiene vivo il contatto con la realtà quotidiana non solo comprende meglio i bisogni, ma parla una lingua che i cittadini riconoscono come autentica.


La responsabilità di chi siede sulla poltrona

Il potere non è un premio personale: è un mandato temporaneo, un prestito che i cittadini concedono. Chi siede su una poltrona dovrebbe sempre ricordare che quella poltrona appartiene alla comunità, non alla persona che la occupa.
Per questo, la vera sfida non è vincere le elezioni, ma restare fedeli alla propria identità originaria anche quando si è chiamati a rappresentare gli altri.


Morale: ricordarsi da dove si è partiti

C’è un’immagine che rende bene l’idea: la poltrona. Simbolo di potere, certo, ma anche di immobilità. Sedersi significa occupare un posto, stabilirsi, fissarsi. Il cittadino, invece, è in movimento: fa la fila, aspetta l’autobus, va al supermercato, si arrabbia per le buche sulla strada. La vita reale è dinamica, fatta di piccole fatiche quotidiane. La vita sulla poltrona, se non si sta attenti, diventa statica. È lì che nasce la distanza.

Chi governa, però, non può permettersi di restare fermo. Un sindaco, un consigliere, un parlamentare non sono stati eletti per sedersi, ma per camminare insieme alla propria gente. La vera forza non sta nell’indossare il ruolo come un’armatura, ma nel ricordarsi ogni giorno le proprie origini: il quartiere dove si è cresciuti, la scuola frequentata, le difficoltà condivise.

Il rischio più grande della politica è quello di trasformare uomini e donne comuni in figure che parlano un linguaggio incomprensibile ai cittadini. Frasi vuote, promesse vaghe, comunicati generici: tutto ciò alimenta sfiducia e allontanamento. Eppure, basterebbe poco per invertire la rotta. Basterebbe che chi occupa una poltrona continuasse a vivere da cittadino, senza barriere, senza filtri, senza dimenticare il prezzo del pane o la coda in farmacia.

La morale è semplice ma impegnativa: il potere non è un privilegio, è un prestito. Un prestito che la comunità concede, fidandosi, e che va restituito con onestà, ascolto e vicinanza. Perché la vera autorevolezza non nasce dal titolo o dalla carica, ma dalla capacità di restare sé stessi anche quando si è chiamati a rappresentare gli altri.

Chi riesce a farlo non sarà ricordato come “quello che occupava una poltrona”, ma come una persona che ha saputo trasformare il potere in servizio, senza mai smarrire la strada che porta alle proprie origini.