Pericolo pubblico n. 1: la giornalista

Paladini della libertà in mare, doganieri della libertà a terra


La scena è surreale: ci si prepara a sfidare i blocchi, le motovedette, le onde del Mediterraneo… ma il vero ostacolo non sono i militari né i missili. È una giornalista.
Non un incrociatore armato, non un radar israeliano. No: una reporter italiana, Francesca Del Vecchio de La Stampa.

Invitata a raccontare la Global Sumud Flotilla, viene accolta con i sorrisi di rito. Poi, però, i sorrisi si trasformano in sospetti. Prima le chiedono di consegnare il cellulare. Poi la invitano a non scrivere troppi dettagli. Infine, il verdetto: “Sei una giornalista pericolosa”.

E via: rimossa dalle chat, convocata da un “direttivo” che sembra più un consiglio di disciplina, espulsa dal porto con tanto di passaporto ritirato. Come in un film distopico, ma senza la sceneggiatura.


Libertà a compartimenti stagni

La missione parte per denunciare i muri che chiudono Gaza.
E intanto costruisce un suo piccolo muro casalingo: quello contro la stampa.
Il paradosso è servito: chi dice di battersi per la libertà teme la libertà dello sguardo indipendente.


La nuova minaccia globale: il taccuino

Missili? Bombe? Intercettazioni? No, peggio.
Il vero nemico è la cronaca. Un articolo che racconta “luci e ombre” è più temuto di un blocco navale.
Perché il giornalismo non si lascia ammaestrare. Non canta in coro. Non applaude su comando.
E allora meglio eliminarlo dal quadro: un comunicato stampa addomesticato è più rassicurante di una penna libera.


L’autogol della credibilità

Il risultato è evidente: la Flotilla ha perso l’occasione di farsi raccontare per quello che è, con le sue contraddizioni e le sue ragioni.
Ha scelto la via corta, quella del sospetto, del controllo, del silenzio.
E ha dato un messaggio chiaro: se perfino noi, paladini della libertà, temiamo la verità dei cronisti, allora chi rimane a difendere davvero la libertà?


Un giornalismo che fa paura

Del Vecchio lo scrive chiaramente: il giornalismo non deve addomesticare né farsi addomesticare.
Ed è proprio questo che spaventa.
Perché un giornalista libero non appartiene a nessun comitato, a nessuna bandiera, a nessun direttivo.
Appartiene solo al suo mestiere: osservare e riferire.

Ed è qui che diventa “pericoloso”: perché non puoi controllarlo, non puoi censurarlo a metà, non puoi ridurlo a megafono.


E allora?

Alla fine resta una domanda amara: se anche chi lotta per i diritti nega diritti a chi racconta, chi resta a difendere il confine fragile del giornalismo libero?

Forse sì, Francesca Del Vecchio è davvero pericolosa.
Pericolosa perché non recita copioni.
Pericolosa perché non firma comunicati.
Pericolosa perché ricorda a tutti noi che la libertà non è un marchio da sventolare, ma un rischio da correre.