Capitolo 8 – Montenerodomo, novembre 1943: il mulo, le fucilate, la “terra bruciata”

Un episodio documentato che racconta la furia nazista e la memoria di due vittime innocenti

«Quella che segue non è leggenda né racconto tramandato a voce, ma una storia documentata, ricostruita grazie a testimonianze dirette e fonti storiche locali.»

Nell’autunno del 1943 la guerra non era più un’eco lontana: era entrata direttamente nella valle del Sangro e nel Medio Sangro. Montenerodomo, borgo arroccato sulle montagne, si ritrovò improvvisamente al centro di uno scenario che travolse la vita quotidiana.

Ad ottobre un contingente militare tedesco si installò nei pressi del paese, requisendo alcune case per farne il comando della guarnigione e dei servizi logistici. Alla popolazione fu imposto di consegnare beni, collaborare ai lavori, piegarsi agli ordini. Era il segno che quei monti, apparentemente remoti, erano diventati un tassello della Linea Gustav, il sistema difensivo che i nazisti stavano costruendo per bloccare l’avanzata alleata.

Gli uomini validi scelsero la fuga, rifugiandosi nei boschi. Il bestiame, ricchezza essenziale per le famiglie, venne nascosto a Paganello e a Monte Maio, tra gli stessi boschi che accoglievano anche profughi provenienti da Sulmona e da altri centri già devastati dai bombardamenti.

A novembre la situazione precipitò. Le razzie, gli ordini di sgombero, le violenze si fecero più frequenti e feroci. Si passò alla tattica della “terra bruciata”: non solo occupare, ma distruggere, per impedire che civili o resistenti potessero trovare riparo o sostegno.


Che cos’era la “terra bruciata”

La “terra bruciata” non era solo un modo di dire, ma una vera e propria strategia militare che i tedeschi applicarono in molte zone d’Italia durante la ritirata del 1943-44, soprattutto lungo la Linea Gustav.

👉 In cosa consisteva
Significava distruggere sistematicamente tutto ciò che poteva essere utile al nemico o alla popolazione civile: case, fienili, stalle, scorte di grano, mulini, ponti, strade.
Gli abitanti venivano cacciati dalle abitazioni, compresi anziani e malati.
Gli animali da pascolo venivano abbattuti o requisiti, i campi bruciati.

👉 Perché lo facevano
Per impedire ai partigiani e agli Alleati di trovare rifugi, cibo o appoggi nella popolazione.
Per punire i civili sospettati di aiutare la Resistenza.
Per lasciare dietro di sé un territorio inospitale e spopolato, una sorta di barriera naturale fatta di rovine.

👉 Cosa significò per Montenerodomo
Nel novembre 1943, i reparti tedeschi iniziarono casa per casa a incendiare il borgo, partendo dal rione San Vito. Non era un atto isolato: rientrava nella logica della “terra bruciata”. Il paese fu devastato, la popolazione sfollata o nascosta nei boschi, intere famiglie ridotte alla fame.

In poche parole: la “terra bruciata” a Montenerodomo non fu solo una tattica militare, ma una condanna alla miseria e alla paura per chiunque fosse rimasto.


È in questo contesto che si inserisce un episodio doloroso e simbolico, rimasto nella memoria di chi visse quei giorni.

Il 30 novembre 1943, due giovani di Montenerodomo colpirono involontariamente un mulo appartenente ai tedeschi. L’animale era un bene prezioso per la logistica militare e l’incidente scatenò la reazione furiosa delle truppe. Otto o nove soldati risalirono la strada che conduceva a Porta di Casale, sparando all’impazzata verso il bosco dove molti uomini del paese si erano nascosti.

Secondo la testimonianza di Maria Rossi (d’Cherubine), sfollata con altre famiglie nella Masseria Carozza a Casale, i colpi raggiunsero Donato Di Luca, che rimase ucciso. Altri uomini, tra cui Michele Rossi, Cherubino Carozza (futuro marito di Maria) e Nicola Lalli, tentarono di fuggire. Ma anche Lalli fu colpito e morì sul posto.

Due vite spezzate in un attimo, vittime non di una battaglia ma della furia cieca di un esercito occupante. Un mulo, un incidente, e la violenza divenne carneficina.


Memoria di un paese in guerra

Quell’episodio del 30 novembre 1943 non fu un fatto isolato: si inseriva in un quadro più ampio di distruzione e sangue che segnò Montenerodomo e i paesi vicini tra l’autunno del 1943 e l’inverno del 1944. Case rase al suolo, popolazione sfollata, anziani e malati costretti a fuggire, famiglie disperse.

Eppure, proprio queste memorie ci ricordano la resistenza silenziosa dei civili. Donne, bambini e anziani sopravvissero come poterono, nascondendo bestiame, dividendo il poco cibo, rifugiandosi nei boschi. La guerra cercava di cancellare ogni traccia di vita, ma la comunità seppe custodire dignità e speranza.

Ricordare Donato Di Luca e Nicola Lalli significa restituire voce e nome a chi pagò con la vita il prezzo dell’occupazione. Non sono soltanto pagine di cronaca, ma ferite incise nella memoria di un paese.

Montenerodomo, come molti borghi della Linea Gustav, sopravvisse alla “terra bruciata”. Ma non dimenticò mai i suoi morti. E raccontare quelle vite spezzate significa impedire che il silenzio cancelli la loro memoria.
Fu l’inizio di una lunga serie di uccisioni che il popolo di Montenerodomo pagò a caro prezzo.

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