
C’è un momento in cui l’Italia sembra svegliarsi dal torpore calcistico. È successo a settembre 2025, quando Mattia Furlani ha vinto l’oro nel salto in lungo ai Mondiali di atletica di Tokyo. Un ragazzo di appena vent’anni che, con il suo talento e la sua determinazione, ha scritto una pagina indimenticabile dello sport italiano.
Per qualche ora, il Paese ha applaudito. I titoli dei giornali hanno raccontato l’impresa, le home page dei siti si sono colorate della sua immagine, e il sorriso di Furlani è diventato simbolo di una nuova generazione di atleti capaci di sorprendere e di emozionare.
Un’ora, appunto. Perché, passato l’entusiasmo iniziale, tutto è tornato alla normalità: il calcio ha ripreso a occupare le prime pagine, i talk show sportivi hanno ricominciato a discutere di rigori e fuorigioco, le trasmissioni televisive a inseguire il gossip delle star del pallone. Il trionfo di Furlani è scivolato in secondo piano, relegato a trafiletti e memorie sociali già dimenticate.
La dittatura del pallone
Non è la prima volta che accade. In Italia il calcio non è solo sport: è religione, intrattenimento, spettacolo, business. Muove miliardi, accende passioni, monopolizza l’attenzione collettiva. È il filtro attraverso cui guardiamo lo sport, come se non esistesse altro.
E allora la sproporzione diventa evidente: un oro mondiale nell’atletica vale una manciata di ore di gloria, mentre l’ennesima voce di mercato di un calciatore mediocre tiene banco per settimane. È una dittatura dolce, che abbiamo accettato senza fiatare.
L’atleta invisibile
Dietro la vittoria di Furlani non c’è solo talento: ci sono anni di sacrifici, allenamenti quotidiani, rinunce. C’è una famiglia che lo ha sostenuto, un team che lo ha accompagnato, strutture spesso non all’altezza, fondi scarsi, sponsor che preferiscono investire altrove.
Eppure, quel ragazzo ha portato sul gradino più alto del podio l’Italia intera. Senza yacht, senza ingaggi da milioni, senza riflettori costanti. Un campione vero, che rappresenta la parte migliore del Paese: disciplina, dedizione, coraggio.
Ma tra poco, purtroppo, il suo nome rischia di finire nell’oblio mediatico. Perché i riflettori sono già pronti a spostarsi altrove: verso i soliti noti, i calciatori con tatuaggi scintillanti e stipendi che fanno impallidire qualsiasi altro sportivo.
Il patriottismo a gettone
Il paradosso è che l’Italia, quando arriva un oro, si gonfia il petto di orgoglio nazionale. “Abbiamo vinto!”, gridano tutti. Ma in realtà non abbiamo fatto nulla. Non abbiamo seguito quegli atleti negli anni bui, non abbiamo preteso impianti migliori, non abbiamo chiesto più fondi per le discipline “minori”.
Li celebriamo per un giorno e li dimentichiamo subito dopo. È un patriottismo intermittente, che dura il tempo di un titolo, di un applauso fugace, di un post sui social. Poi via, verso nuove distrazioni.
I miliardi del calcio
Intanto il calcio continua a divorare tutto. Diritti televisivi, sponsor, merchandising, scommesse: un fiume di soldi che alimenta un sistema in cui anche un panchinaro di serie B guadagna cifre che un campione del mondo di atletica non vedrà mai.
È diventato normale, non ci scandalizza più. La sproporzione è accettata come un fatto naturale, come se non ci fosse alternativa. Il calcio come universo, tutto il resto come satellite.
I media complici
Gran parte della responsabilità è dei media. Parlare di calcio garantisce share, click, pubblicità. È il racconto che vende, che fa girare la macchina. Un’intervista a un calciatore in crisi vale più, in termini di audience, di un oro mondiale nell’atletica.
Così lo sport in Italia viene ridotto a pallone e poco altro. Gli altri atleti diventano comparse, protagonisti occasionali di un racconto che non prevede spazio per loro.
Un Paese distratto
Ma questa ossessione dice molto anche di noi. Dice che preferiamo lo spettacolo alla sostanza, il gossip al sacrificio, i contratti miliardari ai sogni costruiti con fatica. Dice che siamo disposti a dimenticare i nostri veri talenti pur di inseguire il prossimo derby.
Eppure, proprio nelle storie come quella di Furlani dovremmo riconoscerci: ragazzi e ragazze che lavorano nell’ombra, che vincono contro tutto e tutti, che mostrano al mondo il lato migliore dell’Italia.
Solidarietà da stadio
La dinamica non vale solo nello sport. Anche nella politica e nell’opinione pubblica succede lo stesso: la Palestina è diventata il “calcio” delle cause, sempre in prima pagina, sempre sulla bocca di tutti.
Nepal, Sudan, Ucraina? Sono come il salto in lungo: imprese enormi, tragedie reali, ma dimenticate in fretta.
Così come celebriamo un oro per un’ora e poi torniamo al pallone, allo stesso modo dedichiamo cortei, bandiere e slogan solo a un conflitto, dimenticando tutti gli altri. La solidarietà selettiva è la versione politica della nostra ossessione calcistica: appassionata, rumorosa, ma terribilmente miope.
Una riflessione necessaria
Non si tratta di opporre il calcio agli altri sport, ma di restituire equilibrio. Perché un Paese che non valorizza i suoi campioni rischia di smarrire se stesso. Rischia di trasformarsi in una comunità di tifosi senza memoria, pronti a esultare per un giorno e a dimenticare subito dopo.
La domanda è semplice: vogliamo davvero essere un Paese che misura il proprio orgoglio solo in base a un pallone, o siamo pronti a riconoscere il valore di chi porta il tricolore sul podio in silenzio, senza clamore e senza miliardi?
Conclusione: oltre l’ora di gloria
L’oro di Mattia Furlani non dovrebbe durare un’ora nei titoli. Dovrebbe diventare racconto, ispirazione, stimolo per i giovani, investimento per il futuro. Dovrebbe insegnarci che la grandezza non sta nei contratti milionari, ma nella costanza, nel talento, nella determinazione.
Ma per farlo serve un cambio di sguardo. Serve uscire dalla dittatura del pallone e imparare a guardare altrove. Perché l’Italia è grande non solo quando segna un gol, ma anche – e forse soprattutto – quando un ragazzo di vent’anni vola più lontano di tutti e porta a casa un oro mondiale.
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