Nepal, bugie e indifferenza: quando la solidarietà ha il monopattino a noleggio

“Nepal, Ucraina, Sudan… ma l’unico titolo che fa notizia è sempre lo stesso. La bussola dell’indignazione funziona a senso unico.”

Probabilmente non fregherà a nessuno del Nepal, tanto per molti è quel posto sulle cartine geografiche che serve solo a piazzare l’Everest come sfondo delle pubblicità di scarponi da trekking.
Eppure quello che sta succedendo laggiù meriterebbe almeno uno sguardo, perché è la dimostrazione di quanto sia fragile un potere che vive sopra un cumulo di bugie, privilegi e ipocrisia.

Già, ma chi ha tempo di occuparsene? Noi, che quando sentiamo la parola “Nepal” pensiamo più facilmente a un pacchetto turistico che a una crisi politica, abbiamo altre priorità: preparare la prossima manifestazione per la Palestina, stampare nuove bandiere, rispolverare slogan da megafono. Tutto il resto del mondo, nel frattempo, può tranquillamente andare in frantumi.


La solidarietà con il GPS rotto

C’è una cosa curiosa nel nostro modo di indignarci: funziona come un navigatore satellitare, ma con pochissime destinazioni memorizzate. Gerusalemme, Gaza, Ramallah: lì il segnalatore impazzisce, lampeggia, urla “attenzione, attenzione!”.

Appena però provi a impostare “Kathmandu”, il sistema si blocca: “luogo non trovato”. Eppure anche lì ci sono corruzione, instabilità politica, lotte di potere che calpestano i più deboli. Ma niente: il GPS morale non lo registra.

La domanda sorge spontanea: perché un dramma vale più di un altro? Forse perché la Palestina è diventata, per una parte dell’opinione pubblica occidentale, un comodo palcoscenico. Non importa più la sostanza: conta esserci, sventolare la bandiera, raccogliere qualche like indignato sui social.


L’Everest invisibile

Prendiamo l’Everest, simbolo di grandezza e sfida. Per il mondo è la montagna che tutti vogliono scalare. Per il Nepal, invece, è diventata quasi un fardello: turismo incontrollato, sfruttamento, inquinamento, corruzione legata alle spedizioni. È il riflesso perfetto di un Paese che vive sospeso tra tradizione e modernità, tra spiritualità e intrighi politici.

Ma questa complessità non entra nel radar delle nostre piazze. Meglio non complicarsi la vita. Un solo oppresso va bene, due sono già troppi. Tre rischiano di far saltare la narrazione.


Il tifo da curva

Il problema non è solidarizzare con i palestinesi – sacrosanto, per carità – ma trasformare la solidarietà in una specie di tifo da stadio.
“Palestina libera!” diventa lo slogan da urlare a prescindere, come se il resto del mondo fosse composto da comparse.

E così capita che di fronte ad altre tragedie ci giriamo dall’altra parte. Il Nepal non fa notizia, lo Yemen è troppo complicato, il Sudan non si capisce, l’Ucraina divide. Alla fine resta solo un brand da indossare, come una maglietta o una kefiah da sfoggiare.

Solidarietà prêt-à-porter, indignazione usa e getta.


L’arte di ignorare

Se guardiamo bene, il Nepal diventa lo specchio di un meccanismo più ampio: ignorare ciò che non rientra nello schema che abbiamo già deciso di adottare.
È l’arte di ridurre la geopolitica a bianco e nero, perché il grigio ci spaventa.

Ma il mondo non è bianco e nero. È un mosaico di ingiustizie, ognuna con la sua lingua, i suoi volti, le sue contraddizioni. Pensare che la Palestina esaurisca la categoria del dolore è come dire che il mare si riduca a una sola onda.


L’ipocrisia di casa nostra

E qui arriviamo al punto. L’indifferenza verso il Nepal, e verso mille altri Nepal sparsi nel mondo, racconta molto anche di noi.
Siamo bravissimi a scendere in piazza per battaglie lontane, a patto che siano “trendy”. Ma quando il vicino di casa perde il lavoro, quando l’ospedale sotto casa cade a pezzi, quando i nostri paesi si svuotano, improvvisamente perdiamo la voce.

Forse perché la solidarietà vera richiede impegno quotidiano, mentre quella da corteo è comoda: un pomeriggio di slogan e selfie, e la coscienza è a posto fino alla prossima manifestazione.


Nepal come metafora

Il Nepal non è solo un Paese lontano: è la cartina di tornasole di quanto la nostra idea di giustizia sia selettiva.
Oggi ignoriamo Kathmandu, domani sarà un’altra capitale dimenticata. Ma il filo conduttore resta: scegliere chi merita la nostra attenzione e chi no, non sulla base della gravità dei fatti, ma in base alla comodità del racconto.

E così il potere, ovunque, continua a vivere su bugie, privilegi e ipocrisia. Che sia a Gaza, a Roma o a Kathmandu, poco cambia: se non lo guardi, resta invisibile.


Conclusione: sguardo largo

La satira non serve a ridicolizzare la sofferenza, ma a smascherare chi usa la sofferenza come alibi.
Per questo guardare al Nepal è utile: ci ricorda che la democrazia, la libertà, la giustizia non sono monopoli di una bandiera o di un popolo. O si difendono ovunque, o non si difendono da nessuna parte.

Forse sarebbe ora di riprogrammare il GPS della solidarietà, smettere di fare i turisti della protesta e diventare, finalmente, cittadini del mondo.


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