
Gennaio 1946.
📌 In totale furono ventiquattro gli imputati principali: ventuno presenti in aula, Martin Bormann processato in contumacia, Robert Ley suicidatosi prima dell’apertura e Gustav Krupp giudicato inabile a comparire.
Dopo settimane di accuse, testimonianze e filmati sconvolgenti, nell’aula 600 arrivò il momento della difesa. Era la parte più delicata: gli imputati non erano più figure mute sedute dietro le cuffie, ma prendevano parola, ognuno con la propria strategia.
L’argomento più usato: “obbedivo agli ordini”
Molti degli imputati si aggrapparono all’idea di essere stati semplici ingranaggi in una macchina più grande. Wilhelm Keitel, feldmaresciallo, ripeté fino allo sfinimento che aveva sempre obbedito agli ordini di Hitler. La sua postura in aula era quella di un soldato che, anche davanti ai giudici, non riusciva a immaginare un dovere diverso da quello di eseguire.
Lo stesso Alfred Jodl, capo di stato maggiore, parlò di disciplina militare, di vincoli di comando, di impossibilità di ribellarsi. Cercava di convincere i giudici che la sua firma sotto gli ordini di rappresaglia non era frutto di scelta, ma di necessità.
Ma in quell’aula, dopo Buchenwald e Auschwitz, l’argomento dell’“obbedienza” appariva sempre più fragile.
La teatralità di Göring

Diverso fu l’approccio di Hermann Göring. Non si difese come un soldato costretto, ma come un leader convinto. Rivendicò le sue scelte, giustificò le politiche del Reich, cercò perfino di ribaltare l’aula a suo favore, con risposte sprezzanti e battute taglienti ai procuratori.
Göring trasformò il banco degli imputati in un palcoscenico. Per lui il processo era l’ultima ribalta: voleva apparire non come un criminale, ma come un comandante che aveva seguito una visione politica. In uno dei suoi interventi dichiarò senza esitazione:
“Io non mi vergogno di aver servito il mio popolo. Mi vergognerei soltanto se non lo avessi fatto.”
E quando gli fu chiesto come fosse stato possibile trascinare un’intera nazione nella guerra, rispose con lucidità cinica:
“Il popolo può sempre essere portato al volere dei leader. È facile. Basta dirgli che sono stati attaccati e accusare i pacifisti di mancanza di patriottismo e di esporre la patria al pericolo.”
Ernst Kaltenbrunner: la freddezza delle SS

Ernst Kaltenbrunner, capo dell’Ufficio centrale per la sicurezza del Reich (RSHA), portò in aula la stessa durezza che aveva contraddistinto il suo ruolo. Alto, con lineamenti severi, fissava i giudici e i testimoni con uno sguardo che incuteva timore. Negò con fermezza ogni coinvolgimento diretto nei massacri, scaricando responsabilità su subordinati e su Himmler, ma i documenti lo inchiodavano al cuore della macchina repressiva.
La sua freddezza lasciò molti cronisti con i brividi: più che un uomo che cercava di difendersi, sembrava l’incarnazione stessa della brutalità burocratica.
Molti giornalisti annotarono che parlava più al futuro che al presente, come se la sua voce volesse restare come testamento alternativo alla condanna.
Il silenzio e la follia

Rudolf Hess scelse un’altra strada: il silenzio e l’assurdo. Alternava momenti di mutismo assoluto a improvvisi scatti di rabbia. Dichiarava di non ricordare, di non riconoscere gli eventi, come se il processo non lo riguardasse.
I medici dibattevano se fosse simulazione o reale instabilità mentale. Per molti, Hess era l’immagine stessa della frattura del Reich: un uomo che un tempo era stato il delfino di Hitler e che ora appariva come un fantasma confuso, incapace di difendersi.
La “colpa morale” di Speer

Un caso particolare fu quello di Albert Speer, architetto e ministro degli armamenti. Speer non negò le responsabilità del regime, ma adottò una linea diversa: ammise una “colpa morale”, distinguendosi dagli altri imputati.
Nel suo discorso dichiarò:
“Le responsabilità politiche e militari di questo regime sono anche le mie. Non posso negare di averne fatto parte.”
Questa ammissione, unica tra i gerarchi, impressionò i giudici e l’opinione pubblica. Non bastò a salvarlo dalla condanna, ma lo differenziò profondamente da chi continuava a negare l’evidenza.
Le difese tecniche
Altri imputati si rifugiarono nelle difese più tecniche.

- Joachim von Ribbentrop cercò di presentarsi come semplice diplomatico, firmatario ma non ideatore delle politiche del Reich.

- Hans Frank, il governatore della Polonia occupata, dichiarò di aver perso il controllo sugli eventi, come se il sangue dei ghetti e dei campi non fosse mai stato sulle sue mani.

- Karl Dönitz, comandante della Kriegsmarine, tentò di distinguere la guerra in mare da quella sulla terraferma, quasi fosse meno criminale affondare convogli che invadere città.
Queste difese, però, suonavano deboli di fronte alle montagne di prove.
Altri imputati

Accanto ai protagonisti più noti, anche gli altri gerarchi presero parola o lasciarono parlare i loro avvocati. Julius Streicher, il propagandista, trasformò la sua difesa in un delirio di antisemitismo; Baldur von Schirach tentò di mostrarsi come un giovane traviato dagli eventi;

Fritz Sauckel, responsabile del lavoro forzato, cercò invano di minimizzare il suo ruolo; Walther Funk, già ministro dell’Economia, appariva troppo debilitato per sostenere argomentazioni solide. Konstantin von Neurath e Franz von Papen provarono a rivestirsi di dignità da vecchi diplomatici, mentre Hjalmar Schacht insistette sulla sua estraneità politica, riuscendo a ottenere l’assoluzione.
Insieme componevano il mosaico di un regime che, pur con volti diversi, portava la stessa responsabilità collettiva.
La reazione dei giudici
I giudici internazionali ascoltarono senza interrompere, ma annotavano. Geoffrey Lawrence, il presidente britannico, manteneva sempre la stessa espressione severa. Francis Biddle, giudice americano, mostrava spesso scetticismo. I sovietici non nascondevano l’insofferenza verso le difese più arroganti.
In aula si capiva che la partita non si giocava più solo sulle prove, ma sul terreno simbolico: cosa voleva rappresentare la difesa? Un alibi collettivo, una negazione, o il tentativo di distinguersi dal regime?
Il pubblico e i giornalisti
I giornalisti annotavano con cura ogni parola. Alcuni erano colpiti dalla teatralità di Göring, altri dal distacco glaciale di Ribbentrop, altri ancora dalla compostezza insolita di Speer. Ma quasi tutti sottolineavano la distanza tra le parole della difesa e le immagini viste nei filmati dei campi.
Come scrisse un cronista francese:
“La difesa dei gerarchi sembra un gioco di specchi: riflettono se stessi, non le vittime.”
Conclusione
Il capitolo delle difese mostrò che Norimberga non era un tribunale come gli altri. Non bastavano cavilli, non bastava il silenzio, non bastava l’arroganza.
In quell’aula, davanti al mondo intero, ogni parola era misurata non solo come argomento giuridico, ma come atto storico. E se le accuse avevano scolpito i nomi del male, le difese misero a nudo la fragilità di chi, fino a pochi mesi prima, sembrava onnipotente.
La giustizia non era più soltanto un procedimento: era un confronto tra la verità e il tentativo disperato di negarla.
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