Capitolo 6 – I controinterrogatori

📸 Hermann Göring al banco dei testimoni durante il Processo di Norimberga, sorvegliato da due militari americani. L’ex maresciallo del Reich cercò di dominare la scena, ma nei controinterrogatori venne messo alle strette dai procuratori con documenti e ordini firmati di suo pugno.

Febbraio 1946..

Dopo le dichiarazioni degli imputati e le arringhe della difesa, il processo entrò in una fase decisiva: i controinterrogatori. Era il momento in cui le parole dei gerarchi venivano messe alla prova, confrontate con i documenti, le testimonianze e le stesse contraddizioni emerse in aula.

Non si trattava più solo di ascoltare: si trattava di smontare, punto per punto, le narrazioni costruite dagli imputati.


Göring sotto pressione

Hermann Göring continuava a dominare la scena. Durante le prime settimane aveva parlato a lungo, cercando di imporsi come voce alternativa al verdetto dei vincitori. Ma quando i procuratori lo incalzarono con le prove, la sua sicurezza cominciò a incrinarsi.

Robert H. Jackson, con tono calmo ma implacabile, lo costrinse ad ammettere contraddizioni.

  • Göring aveva sostenuto di non aver mai ordinato persecuzioni contro gli ebrei. Jackson mostrò ordini firmati da lui.
  • Göring aveva minimizzato il suo ruolo nella guerra economica. Jackson produsse documenti che lo indicavano come principale responsabile delle requisizioni.

Il maresciallo del Reich cercava ancora di rivoltare le accuse: “Ogni decisione era per il bene della Germania,” ribadiva. Ma gli incastri tra ordini e testimonianze rendevano le sue parole sempre meno credibili.

Un giornalista americano annotò: “La voce di Göring era ferma, ma le sue mani stringevano i fogli con troppa forza. L’attore cedeva al peso del copione.”


Keitel e Jodl: l’obbedienza smontata

La linea difensiva di Wilhelm Keitel e Alfred Jodl era stata l’“obbedienza agli ordini”. Ma durante i controinterrogatori, questa tesi venne ridotta in frantumi.

Gli Alleati portarono alla luce ordini che non erano solo esecuzioni, ma elaborazioni strategiche firmate dai due generali. Documenti che parlavano di rappresaglie sugli ostaggi, distruzioni sistematiche di villaggi, punizioni collettive.

Quando Keitel fu costretto a leggere davanti ai giudici un ordine che autorizzava l’impiccagione di prigionieri sovietici, la sua voce tremò.
In aula calò un silenzio pesante. I giudici ascoltavano immobili, i giornalisti non battevano più un tasto. Le parole del documento sembravano più dure di qualsiasi accusa.

Non era più un soldato che obbediva: era un ufficiale che firmava.


Ribbentrop e la diplomazia della menzogna

Joachim von Ribbentrop, ex ministro degli Esteri, cercava di apparire come semplice funzionario diplomatico. Ma i controinterrogatori lo inchiodarono alle sue stesse firme: il patto con l’Italia, le alleanze con il Giappone, il patto Molotov-Ribbentrop con l’Unione Sovietica.

I giudici gli chiesero: “Lei firmava senza leggere?”
Ribbentrop abbassò lo sguardo, ripetendo formule vaghe. La sua rigidità si trasformò in imbarazzo.


Le grida di Streicher

Julius Streicher, il propagandista, rese i controinterrogatori un teatro grottesco. Urlava, agitava le mani, ripeteva ossessioni antisemite anche in aula.

I giudici più volte dovettero richiamarlo all’ordine. Per i procuratori, però, la sua stessa voce bastava come prova: dimostrava quanto il veleno ideologico avesse nutrito la macchina dello sterminio.

Un cronista inglese scrisse: “Streicher non si difendeva: continuava a predicare. Ma a Norimberga le sue parole non seminavano più odio, solo disgusto.”


Speer e la strategia della distinzione

Albert Speer, l’architetto del Reich, mantenne la linea già intrapresa: ammettere colpe morali. Durante i controinterrogatori, ribadì di non aver mai partecipato direttamente alla progettazione dei campi di sterminio, ma riconobbe di aver beneficiato del lavoro forzato.

Questa ammissione lo rese diverso dagli altri. Molti giornalisti scrissero che, pur rimanendo colpevole, Speer appariva come l’unico a confrontarsi con una verità scomoda.


Le incrinature della difesa

Uno dopo l’altro, i procuratori portarono prove e testimonianze che contraddicevano le dichiarazioni degli imputati:

  • Hans Frank non poté negare i massacri in Polonia, documentati dai suoi stessi decreti.
  • Fritz Sauckel non riuscì a giustificare la deportazione di milioni di lavoratori forzati.
  • Baldur von Schirach, capo della Gioventù hitleriana, dovette ammettere il suo ruolo nella propaganda dei giovani tedeschi.

Ogni controinterrogatorio non era solo un confronto giuridico, ma un rito di smascheramento.


La reazione dell’aula

I giornalisti annotavano con avidità. Alcuni descrivevano la tensione palpabile quando Göring veniva messo alle strette; altri raccontavano il gelo che calava quando un imputato leggeva un proprio ordine criminale.

Il pubblico percepiva chiaramente la frattura: tra l’immagine di potere che i gerarchi volevano ancora proiettare e la realtà documentata dalle carte e dai testimoni.


Conclusione

I controinterrogatori segnarono il punto di svolta del processo. Le difese, già fragili, si sgretolarono sotto il peso delle prove.

L’aula 600 non era più solo un luogo di accuse e giustificazioni: era diventata un laboratorio di verità. Ogni parola pronunciata dagli imputati veniva confrontata con documenti, ordini, testimonianze. E quasi sempre ne usciva sconfitta.

Fu allora che il processo smise di essere percepito come “giustizia dei vincitori”. Cominciò a essere visto per ciò che era: la ricostruzione pubblica, davanti al mondo, delle responsabilità di un intero regime.

Le rovine di Norimberga restavano fuori dalle finestre, ma dentro l’aula 600 crollava un altro edificio: quello delle difese costruite dai gerarchi del Reich.

← Capitolo 5 – Vai capitolo 7


📌 Tag suggeriti
#Norimberga #ProcessoDiNorimberga #Giustizia #Memoria #Storia #Controinterrogatori