
Introduzione: il paradosso della piazza
In teoria, le manifestazioni dovrebbero essere lo spazio più alto della democrazia: la possibilità, per i cittadini, di portare in strada idee, richieste, desideri di cambiamento. In pratica, quello che abbiamo visto ieri in molte città italiane assomigliava più a un bollettino di guerra che a un appello per la pace.
A Milano oltre sessanta agenti feriti, lanci di oggetti e cariche in stazione centrale. A Brescia cordoni rotti, lacrimogeni e scene da guerriglia urbana. A Bologna blocchi stradali e tensioni attorno alla stazione. A Roma cortei trasformati in scontri, a Genova e Ancona i porti bloccati con conseguenze pesanti per chi lavora.
Eppure l’obiettivo dichiarato era chiaro: mostrare solidarietà al popolo palestinese, chiedere la fine delle violenze a Gaza, invocare pace e giustizia. Ma la contraddizione è lampante: come si può difendere la pace con la violenza? Come si può chiedere giustizia mentre si colpiscono uomini in divisa che fanno il loro lavoro o si paralizzano intere città?
La lezione dimenticata della storia
Non è la prima volta che accade. Ogni stagione politica conosce manifestazioni che degenerano. Ma la storia ci ha insegnato anche l’esatto contrario: la forza delle cause che non hanno avuto bisogno di violenza per imporsi.
Pensiamo a Martin Luther King negli Stati Uniti: la lotta per i diritti civili, portata avanti con metodi non violenti, ha cambiato la storia. Pensiamo a Gandhi, che con la disobbedienza civile ha guidato l’India verso l’indipendenza. Pensiamo a tante piazze italiane, dal movimento per il divorzio a quello per l’aborto, che hanno saputo far valere i loro diritti senza trasformare le strade in campi di battaglia.
Queste esperienze dimostrano una verità semplice: la violenza può attirare attenzione, ma non convince. La violenza spaventa, divide, indebolisce. È la parola, il gesto simbolico, la fermezza pacifica che hanno il potere di cambiare davvero la società.
I fatti di ieri
Le manifestazioni di ieri in Italia nascevano da un appello sindacale e politico: sciopero generale di 24 ore, cortei e blocchi per “fermare il genocidio a Gaza”. La richiesta era quella di interrompere le forniture militari a Israele e di spingere il governo italiano a prendere posizione.
Ma quello che resterà impresso non sono gli slogan o le rivendicazioni. Saranno le immagini di poliziotti colpiti, di mezzi pubblici fermati, di pendolari bloccati. Saranno i titoli che parlano di “scontri”, “guerriglia”, “tensione”.
Così, paradossalmente, la Palestina scompare dal racconto, rimpiazzata dalla cronaca nera. E chi voleva sensibilizzare finisce per ottenere l’effetto opposto: screditare la propria causa.
Il diritto di manifestare e il dovere di rispettarlo
In Italia, come in ogni democrazia matura, il diritto di manifestare è sacro. È scritto nella Costituzione, è parte integrante della vita civile. Ma ogni diritto porta con sé una responsabilità. Manifestare non significa avere licenza di distruggere, ferire o bloccare chi lavora.
C’è un confine sottile, ma essenziale, tra protesta e violenza. Finché si rimane al di qua, il messaggio ha forza. Quando lo si oltrepassa, il messaggio si annulla. Chi ieri ha lanciato un sasso non ha “aiutato la Palestina”: ha soltanto tolto voce a chi voleva protestare in modo pacifico.
Solidarietà o pretesto?
Una domanda, allora, è inevitabile: quanta parte delle piazze di ieri era davvero animata da sincera solidarietà verso il popolo palestinese e quanta, invece, ha usato quella causa come pretesto per sfogare rabbia contro lo Stato, contro la polizia, contro “il sistema”?
Perché chi crede davvero nella pace non colpisce un poliziotto che fa il suo dovere. Chi crede davvero nella libertà non impedisce a un lavoratore portuale di guadagnarsi la giornata. Chi crede davvero nella giustizia non trasforma una città in un teatro di guerriglia.
La Palestina ha bisogno di verità, non di caos
Il popolo palestinese ha bisogno di una cosa sopra tutte: verità. Ha bisogno che si raccontino le sofferenze, che si documentino le violazioni, che si costruiscano percorsi politici credibili per arrivare alla pace.
Non ha bisogno di piazze italiane che diventano campi di battaglia. Non ha bisogno che il suo nome venga associato a immagini di violenza. Non ha bisogno che la solidarietà si trasformi in caos.
Chi davvero vuole aiutare i palestinesi dovrebbe avere il coraggio di impegnarsi in altro modo: organizzando iniziative culturali, promuovendo dibattiti, sostenendo progetti umanitari. Ogni pietra lanciata ieri ha reso più difficile distinguere la verità dal pregiudizio, la solidarietà dall’odio.
Una riflessione amara
Alla fine, resta una riflessione amara: la violenza cancella la solidarietà. Non importa con quanta passione si gridi uno slogan: se a fianco di quelle parole volano bastoni e pietre, il messaggio si perde.
E allora, ieri, non abbiamo visto la Palestina. Non abbiamo visto Gaza. Abbiamo visto soltanto rabbia cieca.
La violenza non è mai “a favore di qualcuno”. È sempre e solo contro tutti.
Conclusione
C’è una lezione che dovremmo imparare e tenere stretta: non esiste causa così giusta da poter essere difesa con mezzi ingiusti. La violenza non porta giustizia, non porta pace, non porta verità. Porta solo caos e divisione.
Le piazze italiane, se vogliono davvero essere solidali con chi soffre, devono ricordarlo. Perché la storia non ricorderà gli slogan gridati, ma le immagini che restano. E le immagini di ieri non parlano di solidarietà: parlano di violenza.