
“Gaza può diventare un Eldorado immobiliare.”
Con questa frase, il ministro delle Finanze israeliano Bezalel Smotrich ha trasformato una delle più gravi tragedie umanitarie del nostro tempo in un discorso da investitori. Non si tratta di un lapsus, ma di un messaggio studiato: presentare la devastazione come premessa di un progetto redditizio.
Parole che cancellano il dolore
Mentre decine di migliaia di civili hanno perso la vita e centinaia di migliaia sopravvivono senza acqua potabile, case e ospedali, parlare di “Eldorado immobiliare” significa rovesciare la prospettiva: il dramma umano diventa sfondo, la speculazione economica protagonista.
Non è solo questione politica, ma soprattutto etica. Perché se la distruzione viene descritta come la “prima fase della rinnovazione”, allora il dolore delle vittime non è più una tragedia, ma un costo inevitabile di un progetto futuro. Così la sofferenza diventa variabile di un bilancio, non realtà che grida giustizia.
Smotrich non è uno sprovveduto
Va detto con chiarezza: Smotrich non è un ingenuo. È un politico esperto, che conosce bene il peso delle parole e il funzionamento della comunicazione. Se ha scelto espressioni tanto forti è perché voleva lanciare un messaggio preciso, su tre livelli:
- Interno – rassicurare l’opinione pubblica israeliana che Gaza non tornerà a essere la stessa “spina nel fianco” di sempre, ma verrà plasmata secondo logiche di controllo e sviluppo.
- Internazionale – inviare un segnale a Stati Uniti ed Europa: Israele non solo distrugge, ma “investe” e ricostruisce.
- Strategico – prefigurare il dopo-guerra come fase di trasformazione economica e territoriale, non come semplice ritiro.
Dietro la scelta delle parole c’è dunque una visione precisa: Gaza non è vista come terra di un popolo in ginocchio, ma come risorsa immobiliare da gestire e monetizzare.
Distruzione come premessa
“La demolizione è stata la prima fase della rinnovazione della città, qualcosa che abbiamo già fatto. Ora dobbiamo solo costruire.”
Questa dichiarazione riassume perfettamente il ribaltamento logico: la devastazione diventa “fase necessaria” per aprire la strada a nuovi piani. Non più macerie da piangere, ma terreno pronto per un progetto.
Il rischio è evidente: le vittime non sono più tragedia, ma ostacolo rimosso. La guerra diventa il “costo iniziale”, la ricostruzione il “ritorno sull’investimento”.
La logica del ritorno
Smotrich ha detto apertamente: “Abbiamo investito molto in questa guerra. Ora dobbiamo vedere come ci ripartiamo la terra in percentuali.”
Un linguaggio che appartiene più al mondo della finanza che a quello della politica estera. La guerra come spesa, la ricostruzione come profitto.
Questa logica non è nuova. Bosnia, Iraq, Libano hanno conosciuto lo stesso schema: la devastazione seguita da una ricostruzione che ha arricchito imprese, spesso straniere, più che le popolazioni locali. Gaza rischia di diventare l’ennesimo laboratorio di questa dinamica: macerie trasformate in opportunità finanziaria, quartieri ricostruiti non per chi li abitava, ma per generare rendimenti.
E allora la domanda diventa inevitabile: chi raccoglierà i frutti di questi “investimenti”?
Il ruolo dei commentatori
Ma c’è un altro livello: quello del racconto mediatico. Anche i commentatori hanno le loro responsabilità. Troppo spesso reagiscono con due scorciatoie: indignazione morale o cinismo disincantato.
- Chi si indigna grida allo scandalo, raccogliendo applausi facili ma fermandosi alla superficie.
- Chi minimizza dice “così funziona la politica”, trasformando la gravità in normalità e togliendo peso al dramma umano.
In entrambi i casi, l’obiettivo è lo stesso: generare consenso, visibilità, like. Pochi si fermano a spiegare le vere implicazioni strategiche di parole simili, o a chiedersi quale modello politico ed economico anticipino.
Così il dibattito resta schiacciato tra slogan e semplificazioni, mentre la sostanza – il futuro di un popolo e di un territorio – rimane in secondo piano.
L’immagine che resta
Sul piano internazionale, frasi come quelle di Smotrich rischiano di minare la credibilità di Israele. Se l’obiettivo era mostrarsi come attore di ricostruzione, l’effetto è opposto: l’immagine di un potere che guarda alla terra più che alle persone, ai metri quadri più che alle vite.
La verità è che prima degli investimenti ci sono i corpi da piangere, le famiglie da ricostruire, i bambini da curare. Parlare di “Eldorado” in mezzo alle macerie è un insulto alla dignità di chi soffre.
Conclusione
La ricostruzione di Gaza è inevitabile e necessaria, ma non può essere annunciata come un affare. Deve nascere come atto di giustizia e responsabilità, non come un business plan.
Se la politica continuerà a guardare a Gaza come a un Eldorado immobiliare, il rischio è che la ricostruzione non serva a chi ha perso tutto, ma a chi vuole guadagnarci.
E resterà solo l’immagine amara di un mondo politico che, davanti alle vittime, ha scelto di vedere i metri quadri, non le persone.