Spread a 85: quando scende non interessa più a nessuno

Nel 2011 era l’incubo quotidiano e il grimaldello politico per abbattere governi. Oggi, ai minimi da quattordici anni, la sinistra tace.

Lo spread oggi è a 85 punti base. Un numero secco, che nei telegiornali del 2011 sarebbe stato accolto con titoli a caratteri cubitali: “Mercati fiduciosi, Italia solida”. Oggi invece passa quasi inosservato. Nessuna apertura di TG, nessuna dichiarazione politica in prima pagina. Un silenzio assordante, soprattutto se ripensiamo a quanto quel differenziale – la distanza tra i rendimenti dei titoli di Stato italiani e quelli tedeschi – sia stato per anni il simbolo stesso della fragilità del Paese.

Il fantasma del 2011

Torniamo indietro di quattordici anni. Era l’autunno del 2011 quando lo spread volava oltre quota 500. Le agenzie internazionali aprivano con la parola “default”, i giornali italiani misuravano ogni ora la distanza dal disastro. Lo spread diventò il grimaldello politico con cui si sancì la fine del governo Berlusconi. “L’Italia non è più credibile”, era il refrain.

Non era solo economia. Lo spread era diventato una misura morale. Non contava più soltanto il valore finanziario, ma il giudizio etico che vi si appiccicava sopra: se saliva, significava che il governo era incapace, se scendeva era segno di affidabilità. In quel clima nacque il governo tecnico di Mario Monti, sostenuto da una maggioranza trasversale che, in nome dell’Europa e della stabilità, prese decisioni drastiche e impopolari.

Lo spread come clava politica

Negli anni successivi, lo schema non cambiò. Ogni volta che i mercati tremavano, lo spread tornava nei titoli dei giornali come prova definitiva: spread alto = governo incapace. La sinistra – ma non solo – lo brandiva come clava contro gli avversari. Bastava un grafico per trasformare una questione complessa come la finanza pubblica in un’equazione apparentemente semplice e intuitiva.

Quel numero, incomprensibile ai più, diventò di colpo un’ossessione collettiva. I cittadini impararono a riconoscerlo come un termometro dell’economia nazionale. Più saliva, più cresceva la paura.

Oggi: spread ai minimi, silenzio ai massimi

E arriviamo a oggi. Lo spread scende sotto quota 90, livelli che nel 2011 sarebbero stati considerati fantascienza. La verità è che i mercati non vedono l’Italia come un Paese a rischio. Con la BCE pronta a intervenire e strumenti come il PNRR che garantiscono liquidità, il rischio default appare molto più lontano di quanto non fosse quattordici anni fa.

Eppure, questo dato non fa notizia. Non conviene a nessuno enfatizzarlo. Alla maggioranza non serve, perché non ha bisogno di vantare ogni giorno il favore dei mercati. All’opposizione non conviene, perché significherebbe riconoscere che il governo Meloni non è “punito” dall’Europa e dalla finanza.

Risultato: il numero che un tempo decideva le sorti dei governi oggi è ridotto a nota a piè di pagina.

Perché questo silenzio?

Tre motivi principali spiegano la scomparsa dello spread dal dibattito pubblico:

  1. Non è più utile alla narrazione. Ricordare che lo spread è basso significa togliere argomenti a chi vorrebbe dipingere l’Italia come in caduta libera.
  2. Il contesto è cambiato. L’Europa, dopo la pandemia, ha costruito strumenti di difesa comuni. La BCE non resta più a guardare, ma interviene con lo “scudo anti-spread” per evitare che i Paesi più fragili vengano travolti.
  3. Il pubblico si è spostato su altri temi. Oggi l’opinione pubblica si accende di più sul prezzo della benzina, sulle bollette o sul costo della spesa. Lo spread, in confronto, sembra un ricordo tecnico e lontano.

Una memoria corta

Eppure, questo silenzio rivela molto. Rivela la memoria corta della politica italiana e di una parte dei media. Per anni, lo spread è stato agitato come una minaccia esistenziale. Oggi che non fa più paura, viene archiviato in fretta, quasi con imbarazzo.

È un esempio lampante di come gli indicatori economici, più che a informare, servano a confermare una narrazione. Quando fanno comodo diventano titoli di apertura, quando non servono spariscono dai radar.

La lezione dovrebbe essere un’altra: non ridurre l’economia a uno slogan. Non trasformare un differenziale obbligazionario in un’arma politica.

Oltre lo spread: la credibilità di un Paese

Oggi l’Italia continua ad avere il secondo debito pubblico più alto d’Europa, oltre 150% del PIL. Ma i mercati, almeno per ora, non tremano. Perché? Perché la credibilità non si misura soltanto con i numeri. Si misura con la capacità di rispettare gli impegni, di presentare piani credibili, di restare ancorati al quadro europeo.

Lo spread a 85 non significa che i problemi sono spariti, ma che la fiducia internazionale sull’Italia è più alta. E questo, per paradosso, non è merito né di un governo né di un altro: è il frutto di anni di appartenenza all’euro, di riforme (spesso imposte), di stabilizzazione della cornice europea.

Per questo, il silenzio di oggi è quasi più rumoroso del clamore di ieri. Perché mostra come il dibattito pubblico italiano sia ancora troppo condizionato dal tornaconto immediato: agitare la paura quando conviene, zittire i dati quando contraddicono la narrazione.