
Agosto 1946.
Il Processo di Norimberga entrava nella sua fase conclusiva. Dopo mesi di udienze, milioni di parole trascritte, montagne di prove e testimonianze, toccava agli avvocati della difesa parlare per l’ultima volta.
L’aula 600 era di nuovo gremita fino all’ultimo posto: giornalisti con taccuini e macchine da scrivere, osservatori internazionali, diplomatici, e cittadini di Norimberga curiosi di assistere al confronto finale. L’aria era tesa: non era più tempo di nuove prove, ma di parole, di giustificazioni, di tentativi estremi.
La posizione degli avvocati

I difensori degli imputati avevano un compito quasi impossibile: cercare di salvare uomini che il mondo intero vedeva come colpevoli. Alcuni si aggrapparono ai cavilli giuridici, altri provarono a mettere in discussione la legittimità stessa del tribunale.
L’argomento più ricorrente fu chiaro e ripetuto: “Questo è un tribunale dei vincitori.”
Secondo loro, non si poteva giudicare retroattivamente con leggi nate dopo i fatti. Ma i giudici ribadivano che i crimini contro l’umanità non potevano essere considerati leciti in nessun contesto, e che già le convenzioni internazionali avevano fissato limiti chiari.
Le difese individuali

- Keitel e Jodl: i loro avvocati ripeterono l’argomento dell’“obbedienza agli ordini”. Ma i documenti firmati di rappresaglie e massacri li inchiodavano.
- Ribbentrop: dipinto come un diplomatico travolto dagli eventi, ma la sua firma sul patto con l’URSS e su altri trattati era prova troppo pesante.
- Hans Frank: cercò di presentarsi come un uomo pentito, quasi religioso, riconoscendo parte delle sue colpe.
- Streicher: impossibile contenerlo. Ogni volta che parlava, confermava il fanatismo che lo aveva reso famoso.
- Speer: la difesa sottolineò la sua ammissione di “colpa morale”, sperando che lo distinguesse dagli altri.
- Dönitz e Raeder: puntarono sull’idea di aver condotto una guerra navale secondo regole militari, distinguendosi dalle atrocità di terra.
- Von Papen e Schacht: i loro legali insistettero sul ruolo di tecnici o diplomatici senza potere reale. Argomento che avrebbe portato all’assoluzione di Schacht.
Le ultime parole degli imputati
Dopo le arringhe, i giudici concessero a ciascun imputato di parlare. Fu uno dei momenti più intensi del processo.
- Göring parlò con tono fiero, senza pentimento. Voleva restare, fino all’ultimo, l’uomo che non arretra.
- Ribbentrop si dichiarò fedele al Reich fino alla fine, incapace di staccarsi dal ruolo di servitore.
- Keitel espresse rammarico per la Germania, più che per le vittime delle sue decisioni.
- Hans Frank invocò Dio e chiese perdono: fu l’unico a mostrare un vero pentimento.
- Speer ribadì la colpa morale: “Questo processo è necessario. Ciò che è accaduto non deve ripetersi.”
- Streicher urlò slogan antisemiti fino all’ultimo, confermando il suo odio ossessivo.
- Altri, come Dönitz e Raeder, si limitarono a poche frasi, fredde e militari.
Era un mosaico di caratteri: fanatismo, orgoglio, silenzio, pentimento.
La reazione dell’aula
Ogni parola veniva annotata e trasmessa in tempo reale. Dopo mesi di prove, quelle dichiarazioni avevano soprattutto un valore simbolico. Mostravano che, anche messi di fronte all’abisso, molti imputati non erano in grado di ammettere la verità.
Un cronista inglese scrisse:
“La storia ha ascoltato le loro ultime parole. Nessuna arringa potrà cancellare ciò che hanno firmato, ordinato e compiuto.”
Conclusione
Con le arringhe della difesa e le ultime parole, il processo imboccò la sua fase finale. Non restava che attendere il verdetto.
Le voci dei gerarchi — alcune arroganti, altre spezzate, altre ancora assenti — furono l’eco di un regime crollato. L’aula 600 ne conservò il suono come monito: il male non si giustifica, non si assolve, non si riduce a cavillo.
Il passo successivo sarebbe stato il più atteso e solenne: la lettura della sentenza.
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