
Doveva essere un corteo. Uno di quelli con slogan, bandiere, cori e megafoni.
Si è trasformato invece nel solito copione che conosciamo a memoria: vetri in frantumi, cassonetti rovesciati, strade invase dal fumo, cittadini che tornano a casa scuotendo la testa.
La scena
Un gruppo di incappucciati prende in mano la regia. Prima gli slogan, poi i petardi, infine bottiglie e fumogeni.
Le prime vetrine si incrinano, un’agenzia bancaria diventa bersaglio, i cassonetti rovesciati si trasformano in barricate di cartone in fiamme.
Dietro, i manifestanti “normali”, quelli venuti con lo striscione e la voce, spariscono in una nuvola di lacrimogeni.
La città ostaggio
Il centro si paralizza. Negozi che abbassano in fretta le serrande, famiglie che scappano nelle vie laterali, residenti affacciati alle finestre come spettatori di un film già visto troppe volte.
La protesta contro il precariato, contro il governo o contro chiunque – non importa più per cosa – diventa l’ennesima puntata di una guerriglia urbana in replica continua: trama scontata, finale prevedibile.
La risposta
Arrivano le forze dell’ordine: scudi sollevati, cariche di alleggerimento, sirene che rimbalzano tra i palazzi.
Il giorno dopo i titoli saranno sempre gli stessi: “Manifestazione degenerata”.
Le autorità parleranno di “tolleranza zero”, gli organizzatori scaricheranno la colpa su “frange estranee”.
Intanto, la città paga il conto: vetrine sfondate, cassonetti da sostituire, marciapiedi anneriti dal fumo.
Satira amara
Così il messaggio svanisce.
Chi era sceso in piazza per rivendicare un diritto, un salario, una causa, si ritrova ridotto a comparsa di una guerriglia low-cost.
Mentre qualcuno urla ancora “No pasarán!”, la realtà è che passa solo l’immagine di caos.
E a resistere davvero, alla fine, non sono le rivendicazioni, ma i bollettini delle cronache: vetrine rotte e cassonetti bruciati.