Capitolo XVI – Il biennio rosso e le prime squadre (1920)

Il 1919 si era chiuso male per Benito Mussolini. Alle elezioni politiche di novembre, i Fasci italiani di combattimento avevano ottenuto un risultato misero: poche migliaia di voti, nessun seggio. La stampa lo derise: “Il direttore del Popolo d’Italia è già un uomo finito.”

Molti di quelli che lo avevano seguito al debutto se ne andarono. I futuristi tornarono alle loro provocazioni letterarie, alcuni reduci scivolarono nell’anonimato della vita civile, altri scelsero partiti più solidi. Mussolini sembrava di nuovo solo, come lo era stato tante volte nella sua giovinezza inquieta.

Eppure, ancora una volta, non si arrese.


Il biennio rosso

Il 1920 si aprì come l’anno più turbolento dell’Italia liberale. Scioperi nelle città, agitazioni nelle campagne, manifestazioni quotidiane. A Torino e Milano, le fabbriche furono occupate dagli operai che issarono bandiere rosse sui capannoni; in Emilia e in Toscana i contadini formarono leghe armate di forconi e presero possesso delle terre incolte.

Il costo della vita saliva senza controllo, il pane mancava, i reduci tornavano a casa e non trovavano né lavoro né riconoscimento. L’eco della rivoluzione bolscevica in Russia alimentava paure e speranze: molti sognavano “l’ottobre italiano”, altri tremavano di fronte all’idea di un soviet a Torino o a Bologna.

Il Paese sembrava sull’orlo di una guerra civile.


Mussolini fiuta l’occasione

Dopo la disfatta elettorale, Mussolini comprese che la sua forza non stava nei voti, ma nella piazza e nell’azione. Sul Popolo d’Italia scrisse:

“Non è con le chiacchiere che si fermerà la marea rossa. Ci vuole l’azione. Ci vuole la forza.”

Era un cambio di tono definitivo. Non più rivoluzione socialista, non più interventismo idealizzato, non più soltanto parole infuocate: ora Mussolini invocava apertamente la forza organizzata contro il socialismo.


La nascita delle squadre

Così nacquero le prime squadre d’azione. Giovani reduci che non riuscivano a reinserirsi, arditi che avevano conosciuto la violenza al fronte, studenti inquieti, disoccupati in cerca di identità. Indossavano camicie nere, portavano bastoni, pistole e bottiglie di olio di ricino.

Si muovevano come piccoli eserciti privati, pronti a colpire. Le spedizioni punitive prendevano di mira le sedi delle leghe contadine, le Camere del Lavoro, le cooperative agricole. Bruciavano archivi, devastavano circoli, costringevano i dirigenti socialisti a bere olio di ricino e a firmare dimissioni sotto minaccia.

Il Popolo d’Italia non nascondeva nulla, anzi celebrava quelle azioni come necessarie.

“Bisogna spezzare le reni alla rivoluzione rossa. Se i socialisti vogliono la guerra, l’avranno.”


Le fabbriche di Torino

Un episodio simbolico fu quello dell’occupazione delle fabbriche a Torino nel settembre 1920. Migliaia di operai occuparono gli stabilimenti Fiat e Ansaldo, issarono le bandiere rosse e organizzarono forme embrionali di autogestione. Per settimane l’Italia liberale tremò: sembrava davvero che il bolscevismo fosse alle porte.

Gli industriali bussarono alle porte dei Fasci. Per loro, quei giovani violenti rappresentavano un baluardo contro la rivoluzione. I primi finanziamenti arrivarono da agrari e imprenditori: soldi per uniformi, mezzi e armi. Mussolini comprese di aver trovato il varco per trasformare un movimento marginale in forza politica concreta.


La violenza come linguaggio

Per Mussolini, la violenza divenne un linguaggio politico. Dove le parole non bastavano, parlavano i manganelli e il fuoco.

In un editoriale scrisse:
“La politica è azione, e l’azione non teme di sporcarsi le mani. La violenza non è vergogna, ma igiene della vita pubblica.”

Non era una frase casuale: sanciva un ribaltamento morale. La violenza, da delitto, diventava virtù. Una legittimazione che trovava terreno fertile tra chi aveva visto la guerra e non temeva più lo scontro fisico.


I primi successi

Le squadre si diffusero rapidamente, soprattutto in Emilia, Toscana e Veneto, le terre più rosse d’Italia. Ogni volta che una Camera del Lavoro veniva devastata, i socialisti gridavano allo scandalo. Ma intanto molti borghesi tiravano un sospiro di sollievo.

Gli agrari, assediati dai contadini, cominciarono a considerare i fascisti indispensabili. Gli industriali, paralizzati dagli scioperi, iniziarono a pagare perché le squadre riportassero ordine.

Mussolini osservava con attenzione. La sua creatura, nata come movimento minoritario, stava trovando terreno fertile.


La figura del capo

Nel 1920 Mussolini assunse sempre più i tratti del capo politico. Non era solo il direttore di un giornale, ma il leader riconosciuto delle squadre.

Lo si vedeva girare per Milano in cappotto scuro, con passo deciso, salutato dai giovani reduci che tornavano da una spedizione. Nelle riunioni parlava con tono secco e militare:

“La rivoluzione socialista non passerà. Se vogliamo vincere, dobbiamo essere più duri, più rapidi, più feroci dei nostri avversari.”

Era il linguaggio del comando, non più solo quello del giornalismo.


La crisi dello Stato

Il governo liberale osservava con impotenza. Polizia ed esercito, spesso, chiudevano un occhio di fronte alle violenze fasciste: temevano di più i socialisti che le camicie nere. Così, i Fasci iniziarono a occupare uno spazio che lo Stato non sapeva più difendere.

Di fatto, nel 1920, i Fasci erano insieme forza privata di repressione e movimento politico emergente. Una miscela che avrebbe mutato gli equilibri dell’Italia.


Conclusione del capitolo

Il 23 marzo 1919 non cambiò immediatamente la storia d’Italia. Ma fu la prima tappa di un percorso nuovo.
Quel giorno, in un locale modesto di Milano, un ex socialista, ex direttore dell’Avanti!, ex soldato ferito, fondava un movimento destinato a mutare il volto del Paese.
I Fasci Italiani di Combattimento erano ancora pochi, ma avevano un leader che conosceva la forza delle parole e delle piazze.
Mussolini, il ragazzo ribelle di Dovia, il prigioniero di Berna, il maestro inquieto, il soldato ferito, ora si presentava come il capo di un’Italia che non voleva più essere debole.
E anche se il loro esordio elettorale fu un fallimento, la scintilla era stata accesa. Piccola, incerta, quasi invisibile. Ma sarebbe presto diventata incendio.

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