Capitolo XVII – Dal movimento al partito: la nascita del PNF (1921)

Il 1921 si aprì con l’Italia ancora in fiamme. Gli scioperi e le occupazioni del biennio rosso si erano attenuati, ma la tensione non si era spenta: nelle campagne dell’Emilia e della Toscana, il nero delle camicie cominciava a sostituire il rosso delle bandiere, e le squadre fasciste continuavano a colpire sedi socialiste, cooperative e circoli operai.

Il Paese viveva una condizione paradossale: da un lato la spinta rivoluzionaria sembrava essersi esaurita, dall’altro la paura della rivoluzione alimentava un vuoto che i liberali non sapevano colmare. Mussolini osservava e capiva che il suo movimento non poteva restare sospeso nel caos. Serviva una forma politica più solida, capace di raccogliere consensi oltre le piazze violente.


Dal fascio al partitoDal fascio al partito

I Fasci italiani di combattimento erano nati a Milano nel marzo 1919 come un’aggregazione fluida: reduci della guerra, futuristi, sindacalisti rivoluzionari, studenti, nazionalisti delusi. Una compagnia eterogenea, che al primo test elettorale era sembrata destinata a sparire.

Ma due anni dopo la realtà era mutata. I Fasci non erano più soltanto un’avanguardia rumorosa: erano diventati una forza che, con la violenza delle squadre e la protezione degli agrari e degli industriali, stava ridisegnando la vita politica italiana.

Mussolini comprese che era tempo di dare al movimento una struttura. La parola d’ordine era trasformazione: da gruppo ribelle a partito politico. Così, nel novembre del 1921, durante il congresso di Roma, nacque ufficialmente il Partito Nazionale Fascista (PNF).

Il nome segnava il passaggio decisivo: dal disordine dei Fasci alla disciplina di un’organizzazione politica che ambiva al potere.


Mussolini candidato

Già in primavera, però, un altro passaggio aveva cambiato la sua traiettoria. Per la prima volta, Mussolini decise di candidarsi al Parlamento.

Le elezioni politiche del maggio 1921 furono un banco di prova cruciale. I fascisti si presentarono all’interno del Blocco Nazionale, una coalizione con liberali e nazionalisti. Era una scelta pragmatica, quasi impensabile solo pochi anni prima, quando Mussolini urlava contro la monarchia e i notabili parlamentari. Ma senza alleati, i Fasci non avrebbero avuto possibilità.

Il risultato fu sorprendente: Mussolini fu eletto deputato. L’uomo che fino a pochi anni prima era stato espulso dal Partito Socialista, che aveva gridato “guerra alla guerra” e poi inneggiato all’intervento, ora sedeva nei banchi del Parlamento del Regno d’Italia.


Il doppio volto

Quel 1921 mise in scena il doppio volto di Mussolini.

Da un lato, il deputato in giacca scura, cravatta sobria, sguardo controllato, che parlava in Parlamento con tono pacato e scandito. Dall’altro, il capo delle squadre, che sulle colonne del Popolo d’Italia e nelle piazze legittimava la violenza e la definiva “igiene della vita pubblica”.

I liberali lo descrivevano come “il rivoluzionario diventato uomo di Stato”. I socialisti lo accusavano di ipocrisia: “Parla come un politico, ma comanda bande di assassini.”

Mussolini non si lasciava turbare. Diceva ai suoi:
“Il fascismo deve avere due anime: una che parla al Paese, una che agisce nelle strade. Solo così vinceremo.”


I discorsi alla Camera

Quando prese la parola alla Camera dei deputati, Mussolini sorprese molti. Non agitava i pugni come nei comizi, non urlava come nelle piazze: parlava con calma, quasi con misura, mostrando di conoscere bene i meccanismi del linguaggio parlamentare.

Uno dei suoi primi discorsi fu un attacco diretto ai socialisti:
“Non siamo qui per condividere la loro retorica di classe. Noi rappresentiamo la nazione. E la nazione non si divide: si guida.”

I banchi liberali e nazionalisti applaudirono con forza. Mussolini dimostrava di poter essere, al tempo stesso, tribuno di piazza e uomo capace di muoversi nei corridoi del potere.


La violenza continua

Mentre Mussolini parlava in Parlamento, nelle province le camicie nere non si fermavano.

In Emilia, squadre armate costringevano i sindaci socialisti a dimettersi sotto minaccia. In Toscana bruciavano cooperative agricole, in Veneto devastavano case del popolo.

Ogni spedizione punitiva rafforzava il mito del fascismo come forza inarrestabile. Il Popolo d’Italia raccontava quelle azioni con toni enfatici:

“Il fascismo avanza, i rossi arretrano. È la legge della vita.”


La conquista dei notabili

Il 1921 vide anche l’avvicinamento della classe dirigente tradizionale. I liberali di Giovanni Giolitti e i nazionalisti di Enrico Corradini cominciarono a guardare Mussolini come a un alleato utile per frenare il socialismo.

L’alleanza elettorale di maggio era stata un esperimento riuscito: i fascisti, pur minoritari, entravano in Parlamento grazie all’appoggio dei notabili. In cambio, i liberali trovavano nelle squadre un argine contro le rivolte popolari.

Era un patto ambiguo, ma decisivo: Mussolini aveva conquistato un posto nella scena politica ufficiale.


Il Congresso di Roma

Il momento culminante fu il Congresso di Roma del novembre 1921. Lì, i Fasci italiani di combattimento si trasformarono ufficialmente in Partito Nazionale Fascista.

Mussolini prese la parola davanti a centinaia di delegati arrivati da tutta Italia. Non era più il giornalista ribelle, né soltanto il capo delle squadre: era il leader di un partito che si preparava a giocare un ruolo nazionale.

Disse, con tono solenne:
“Il fascismo è nato come ribellione. Ora diventa responsabilità. Non rinunciamo alla nostra forza, ma la portiamo dentro la nazione per guidarla.”

Il PNF contava ancora poche decine di migliaia di iscritti, ma il numero cresceva di giorno in giorno. E soprattutto possedeva ciò che nessun altro partito aveva: una milizia paramilitare che incuteva timore.


Conclusione del capitolo

Il 1921 fu l’anno della metamorfosi.
Da movimento fluido e violento, i Fasci si fecero partito. Da agitatore di piazza, Mussolini si fece deputato.
Il giovane ribelle di Dovia, l’esule in Svizzera, il soldato ferito e il capo delle squadre, ora entrava nelle istituzioni del Regno. Non era ancora al potere, ma la strada era tracciata: le camicie nere controllavano le piazze, Il Popolo d’Italia influenzava l’opinione pubblica, il PNF sedeva in Parlamento.
Mussolini aveva imparato a usare due lingue diverse: quella della politica, per rassicurare i notabili, e quella della violenza, per galvanizzare le masse.
Il 1922 si avvicinava. E con esso, la prova decisiva: trasformare un partito giovane e aggressivo in forza capace di rovesciare lo Stato liberale.
Il futuro era alle porte.

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