Quando il re Vittorio Emanuele III gli consegnò l’incarico il 30 ottobre 1922, Benito Mussolini aveva soltanto trentanove anni. Entrava a Palazzo Chigi non come il rivoluzionario in armi che aveva minacciato lo Stato, ma come il presidente del Consiglio incaricato di guidarlo.
Il paradosso era evidente: l’uomo che aveva alimentato la pressione delle camicie nere, che aveva fatto tremare le istituzioni con il linguaggio della piazza, adesso diventava il garante dell’ordine. Per alcuni era una vittoria della responsabilità; per altri, un clamoroso errore.

Un governo di coalizione
Il primo ministero Mussolini non fu un governo fascista puro. Dei venti ministri, solo tre appartenevano ai Fasci. Gli altri erano liberali, popolari, nazionalisti, militari o tecnici.
Mussolini accettò di buon grado questo compromesso. Sapeva che il fascismo, da solo, non aveva ancora i numeri per reggere l’Italia. Ma al tempo stesso era consapevole che entrare nello Stato significava cominciare a trasformarlo dall’interno.
Ai suoi più stretti collaboratori disse con tono profetico:
“Per comandare bisogna saper attendere. Entriamo nello Stato, e lo Stato diventerà nostro.”
Il discorso del 16 novembre
Il momento decisivo arrivò poche settimane dopo. Il 16 novembre 1922 Mussolini si presentò alla Camera dei deputati per chiedere la fiducia.
Entrò vestito di nero, con passo sicuro e sguardo freddo. L’aula era gremita, i deputati tesi. Alcuni socialisti lo accolsero con mormorii ostili; i liberali e i nazionalisti lo osservavano con curiosità e timore.
Il passaggio centrale del suo discorso rimase impresso nella storia:
«Avrei potuto fare di quest’aula sorda e grigia un bivacco per i miei manipoli, ma ho voluto invece che fosse la sede della sovranità nazionale.»
Era una frase che conteneva insieme minaccia e legittimazione. Mussolini ricordava ai deputati che la forza delle squadre era sempre lì, pronta a irrompere; ma sceglieva, almeno per il momento, la via istituzionale.
La Camera comprese subito il senso di quelle parole. Dietro la richiesta di fiducia c’era l’ombra delle camicie nere, che continuavano a presidiare le piazze e i municipi nelle province. La fiducia arrivò con una maggioranza schiacciante: 306 voti a favore, appena 116 contrari.
L’uomo dell’ordine
Nei mesi successivi Mussolini si impegnò a costruire l’immagine di uno statista. Si mostrava deferente verso il re, dialogava con i liberali, cercava l’appoggio della Chiesa. Parlava di pacificazione, di disciplina, di fine del disordine.
Allo stesso tempo, nelle province lasciava campo libero alle squadre fasciste, che continuavano a incendiare cooperative socialiste, costringere sindaci a dimettersi, picchiare sindacalisti.
Era un equilibrio sottile: il volto istituzionale a Roma, il pugno di ferro nelle campagne. Un doppio registro che spiazzava gli avversari e rassicurava, paradossalmente, una parte dell’opinione pubblica.
Un giornale liberale scrisse:
“Il fascismo ha due facce: quella elegante e parlamentare del presidente del Consiglio, e quella brutale e armata delle camicie nere. Ma entrambe parlano la stessa lingua: quella dell’ordine.”
La riforma elettorale: la legge Acerbo
Uno dei primi atti significativi del nuovo governo fu la proposta di una legge elettorale destinata a cambiare la storia: la cosiddetta legge Acerbo, dal nome del sottosegretario Giacomo Acerbo che la presentò in Parlamento nel 1923.
La legge stabiliva che il partito che avesse ottenuto almeno il 25% dei voti avrebbe automaticamente conquistato i due terzi dei seggi.
Per Mussolini, era il passo decisivo per trasformare una forza ancora minoritaria in una maggioranza parlamentare. Lo disse senza mezzi termini:
“Il Paese ha bisogno di governo, non di anarchia parlamentare. Chi vince deve comandare.”
La legge fu approvata, nonostante le proteste socialiste e popolari. Molti deputati votarono a favore spinti più dalla paura delle squadre fasciste che da convinzione politica.
Era una svolta epocale: il fascismo, ancora piccolo nei numeri, si preparava a diventare grande per legge.
La duplice faccia del potere
In pubblico, Mussolini parlava di conciliazione, di stabilità, di “governo forte ma giusto”. Nei fatti, continuava a permettere che la violenza squadrista restasse lo strumento di pressione più efficace.
La stampa socialista denunciava quotidianamente le devastazioni e gli incendi: “Il governo chiude gli occhi mentre le camicie nere trasformano i paesi in teatri di paura.”
Mussolini rispondeva con ambiguità calcolata:
“Il fascismo non è un coro di angeli. Ma è la forza che ha salvato l’Italia dalla rovina.”
Questa doppiezza rafforzava la sua posizione. Ai moderati appariva come l’uomo capace di contenere l’estremismo rosso. Ai fascisti militanti, come il capo che non li aveva traditi.
La costruzione del mito
Accanto alla politica e alla violenza, Mussolini lavorava anche sulla sua immagine. Il Popolo d’Italia pubblicava fotografie che lo ritraevano in doppia veste: in camicia nera tra i militanti, oppure in giacca elegante accanto ai ministri.
Un redattore del suo giornale scrisse in quegli anni:
“Mussolini è il ponte fra l’Italia che ha combattuto e l’Italia che deve governare. È il capo che sa quando usare la penna e quando il ferro.”
Si costruiva così il mito del “duce”, anche se il titolo non era ancora stato ufficializzato: un uomo capace di incarnare allo stesso tempo la rivoluzione e lo Stato.
Conclusione del capitolo
Il primo governo Mussolini fu ancora un compromesso, un ministero di coalizione con poche poltrone fasciste e molte concessioni ai liberali e al re. Ma dietro quella prudenza si nascondeva già la strategia del futuro.
Il maestro ribelle della Romagna, l’esule svizzero, il soldato ferito, il capo delle squadre, adesso sedeva al centro delle istituzioni. Non aveva ancora il potere assoluto, ma stava costruendo le fondamenta.
Con la legge Acerbo in gestazione, la fiducia schiacciante del Parlamento e l’appoggio crescente della monarchia e degli industriali, Mussolini sapeva di avere il tempo dalla sua parte.
Il 1923 fu l’anno del consolidamento. Ma già all’orizzonte si profilava la svolta: il momento in cui il compromesso si sarebbe trasformato in dominio, e la democrazia italiana avrebbe ceduto il passo a una nuova dittatura.