Capitolo XVIII – La marcia su Roma (1922)

L’Italia del 1922 era un Paese sospeso sull’orlo dell’abisso. La guerra mondiale si era conclusa da quasi quattro anni, ma le sue cicatrici non si erano mai rimarginate. Le città erano percorse da cortei di reduci mutilati, con il volto scavato e gli occhi persi. Le campagne erano agitate da occupazioni di terre, gli stabilimenti del Nord vedevano le bandiere rosse issate sulle fabbriche. Nei mercati, la gente faceva la fila per il pane, mentre l’inflazione rosicchiava i salari.

Era un’Italia fragile e inquieta, dove il Parlamento cambiava governo ogni pochi mesi, incapace di garantire stabilità o ordine. E in mezzo a questo caos, le camicie nere, nate come piccoli gruppi di azione, avevano conquistato intere province, imponendo con la forza la propria presenza.

Mussolini, dopo tre anni di battaglie e trasformazioni, capì che il momento era arrivato.


Il Paese in crisiIl Paese in crisi

Gli scioperi si moltiplicavano, la disoccupazione cresceva, e nelle piazze si gridava ancora alla “vittoria mutilata”, denunciando i mancati compensi territoriali promessi dal Patto di Londra.

Il Popolo d’Italia, ogni giorno, batteva sullo stesso tasto: l’Italia era a un bivio. Mussolini scrisse in un editoriale di settembre:
“L’Italia non ha più tempo. La scelta è fra caos e ordine, fra rovina e rinascita. Noi siamo pronti.”

Per molti lettori, quelle parole non erano più retorica: erano un programma.


Lo sciopero generale

Nell’estate del 1922, i socialisti e i sindacati confederali tentarono l’ultima carta: lo sciopero generale. Doveva essere la grande prova di forza contro lo squadrismo e contro lo Stato.

Ma la realtà tradì le speranze. Lo sciopero fu disorganizzato, i collegamenti saltarono, e proprio lì si inserì la macchina fascista. Le squadre nere occuparono stazioni ferroviarie, uffici postali, centrali elettriche. In alcune città garantirono persino la circolazione dei treni, presentandosi come difensori dell’ordine pubblico.

Mussolini colse l’occasione con il suo consueto fiuto politico:
“Il fascismo ha dimostrato di essere la vera forza dello Stato. Dove loro scioperavano, noi facevamo funzionare i treni. Dove loro gridavano, noi governavamo.”

Quello che doveva essere un colpo mortale allo squadrismo si trasformò nel suo più grande successo propagandistico.


Verso Roma

In autunno, la tensione era palpabile. Al congresso del PNF, Mussolini pronunciò parole che suonarono come una minaccia, ma anche come una promessa:
“O ci danno il governo, o lo prenderemo da soli.”

Le squadre cominciarono a organizzarsi per una dimostrazione nazionale di forza. Arditi, ex ufficiali, giovani studenti e reduci si radunarono in colonne, pronti a mettersi in marcia verso la capitale.

Il 27 ottobre 1922 partì ufficialmente la Marcia su Roma.


Il governo paralizzato

A Roma, il presidente del Consiglio Luigi Facta propose di proclamare lo stato d’assedio. Le truppe erano pronte: bastava la firma del re.

Ma Vittorio Emanuele III esitò. Diffidava di un esercito che forse non avrebbe obbedito agli ordini contro i fascisti. Temendo una guerra civile, e convinto che Mussolini potesse rappresentare una soluzione temporanea, rifiutò di firmare.

Fu una decisione che cambiò la storia del Paese.


Mussolini a Milano

Intanto, Mussolini non era ancora in marcia con le sue camicie nere. Si trovava a Milano, attendendo notizie, pronto a scomparire se l’impresa fosse fallita. Non era incoscienza, ma calcolo freddo: preferiva rischiare poco, pronto a raccogliere i frutti solo in caso di successo.

Si racconta che passò ore febbrili nel suo ufficio, ricevendo telegrammi e rapporti. Quando seppe che il re aveva convocato i leader politici, sorrise: “Hanno paura. È la nostra occasione.”

Il 29 ottobre ricevette il telegramma ufficiale che lo convocava a Roma. Salì su un treno e viaggiò verso la capitale vestito con un elegante cappotto scuro e guanti di pelle, non come un rivoluzionario in armi, ma come un uomo di Stato chiamato a governare.


L’incarico

Il 30 ottobre 1922 Benito Mussolini entrò a Roma da vincitore. Non aveva conquistato la capitale con le armi, ma con l’inerzia del governo e la scelta del re.

Fu ricevuto da Vittorio Emanuele III e incaricato di formare il nuovo governo. Aveva appena trentanove anni. Il ragazzo ribelle di Dovia, l’esule svizzero, il prigioniero di Forlì, il direttore del Popolo d’Italia, il capo delle squadre: ora diventava Presidente del Consiglio del Regno d’Italia.

Un cronista scrisse:
“Arrivò in treno come un qualsiasi ministro. Ma la città lo guardò come si guarda un conquistatore.”


Conclusione del capitolo

La Marcia su Roma non fu una rivoluzione violenta, ma un colpo di teatro politico. Le camicie nere non presero la capitale con i fucili: fu il re a consegnarla, scegliendo Mussolini come garante dell’ordine.
Mussolini stesso, anni dopo, lo ricordò con orgoglio e con una frase che racchiudeva l’essenza di quei giorni:
“Diedi all’Italia non una rivoluzione, ma un governo.”
Era il 1922. Da quel momento, la storia d’Italia entrava in una nuova epoca. Per alcuni era la fine del caos, per altri l’inizio di un incubo.
Ma una cosa era certa: il destino del Paese, per i decenni a venire, non sarebbe più stato lo stesso.

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