Capitolo XIX Bis – Mussolini e D’Annunzio: due rivoluzioni a confronto

Il rapporto tra Benito Mussolini e Gabriele D’Annunzio, fino al 1925, è una delle pagine più affascinanti e ambigue della storia italiana. Due uomini diversi, due stili opposti, ma destinati a incrociarsi sullo stesso terreno: la politica e il mito della nazione.


Il poeta e il politico

Quando nel 1919 Mussolini fondava i Fasci di combattimento a Milano, D’Annunzio guidava l’impresa di Fiume. Due gesti paralleli: uno politico, l’altro poetico-militare.

D’Annunzio costruiva la “Reggenza del Carnaro”, con la sua Costituzione visionaria, i saluti romani, le adunate notturne, i canti collettivi. Mussolini osservava e imparava: molti riti fascisti sarebbero nati proprio da quelle invenzioni fiumane.

Ma tra i due non ci fu mai collaborazione diretta. Mussolini guardava al Vate con rispetto e diffidenza: troppo carismatico, troppo imprevedibile, troppo ingombrante.


Rivalità implicita

Nei primi anni Venti, per molti italiani, D’Annunzio era il vero simbolo del nazionalismo, il “comandante” di Fiume. Mussolini era ancora un capo in costruzione.

Alcuni ambienti conservatori e nazionalisti guardavano al poeta come possibile guida dell’Italia postbellica, più che al giovane ex-socialista.

La caduta di Fiume nel Natale di sangue (1920) tolse a D’Annunzio la scena politica, ma non il prestigio. Mussolini sapeva che un suo ritorno avrebbe potuto oscurarlo.


L’incidente di Gardone

Il 13 agosto 1922 accadde l’episodio decisivo.

D’Annunzio cadde da una finestra del Vittoriale, il suo rifugio a Gardone Riviera. L’impatto fu violentissimo: cranio fratturato, lunga convalescenza.

Ufficialmente si trattò di un incidente domestico. Ma i dubbi non mancarono: perdita di equilibrio? Malore? O addirittura un attentato mascherato?

Non esistono prove di un complotto, ma il sospetto circolò da subito. Fatto sta che, poche settimane dopo, Mussolini guidò la Marcia su Roma senza temere concorrenze dall’eroe di Fiume.

Per i fascisti fu un “incidente provvidenziale”.


Onori e marginalizzazione

Dopo il 1922, Mussolini non attaccò mai D’Annunzio. Al contrario, lo riempì di onori e prebende: riconoscimenti, denaro, attenzione. Lo voleva come vate nazionale, non come rivale politico.

D’Annunzio si ritirò al Vittoriale, trasformandolo in un tempio di memoria e arte. Continuava a scrivere, a vivere da personaggio, ma senza più un ruolo diretto.

Il poeta e il dittatore si scambiarono lettere cordiali. Mussolini lo celebrava come “il più grande poeta d’Italia”, ma al tempo stesso lo teneva lontano dal potere.


Epilogo fino al 1925

Quando il fascismo affrontò la crisi del delitto Matteotti, nel 1924, D’Annunzio rimase in silenzio. Non prese posizione, non intervenne. Era ormai una figura simbolica, ma non politica.

Nel 1925, con Mussolini che si dichiarava dittatore, il rapporto tra i due era chiaro: D’Annunzio, il vate abruzzese, restava l’icona letteraria della nazione; Mussolini, l’ex maestro ribelle, era diventato il suo capo politico.


Conclusione

Il legame tra Mussolini e D’Annunzio fu fatto di distanza e influenza. Mai alleati, mai nemici dichiarati, ma protagonisti paralleli della stessa stagione.

D’Annunzio inventò i simboli, le liturgie, lo stile scenico. Mussolini trasformò tutto questo in politica concreta e in regime.

Tra i due non ci fu duello diretto: un “incidente” tolse di mezzo il poeta proprio quando avrebbe potuto contendere la guida dell’Italia.

Così, il giovane Mussolini ebbe campo libero per trasformare i sogni dannunziani in potere assoluto.

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