Capitolo XXI – Il delitto Matteotti e la dittatura (1924-1925)

Il 1924 si era chiuso con Mussolini trionfante.
La vittoria del “Listone Nazionale” gli aveva consegnato la maggioranza assoluta in Parlamento.
Il fascismo non era più solo un movimento di piazza: era lo Stato.

Ma dietro il trionfo si nascondeva un’ombra che presto sarebbe diventata tempesta.


La denuncia di MatteottiLa denuncia di Matteotti

Il 30 maggio 1924, alla Camera, il deputato socialista Giacomo Matteotti prese la parola. Con voce ferma denunciò pubblicamente i brogli, le violenze e le intimidazioni che avevano segnato le elezioni.

«Abbiamo assistito a violenze inaudite. Non si tratta più di elezioni libere: è stato uno stupro della volontà nazionale.»

Le sue parole caddero come pietre. Mussolini, seduto ai banchi del governo, ascoltò in silenzio. Ma il colpo era stato inferto.


Il rapimento

Dieci giorni dopo, il 10 giugno 1924, Matteotti fu rapito in pieno giorno a Roma, mentre camminava lungo il Lungotevere.
Una macchina si fermò, uomini armati lo afferrarono e lo spinsero a bordo.
Non fu più visto vivo.

Il Paese rimase sconvolto. Tutti compresero subito: dietro quel delitto c’erano le squadre fasciste.

Il corpo del deputato venne ritrovato solo due mesi dopo, in una fossa a Riano, alle porte della capitale. Era stato pugnalato a morte.


La crisi del regime

Per Mussolini fu il momento più difficile della sua carriera. L’opposizione insorse, chiedendo le sue dimissioni.
Nelle piazze si gridava “Assassini!”. Anche all’interno del fascismo molti erano imbarazzati.

Il re rimase in silenzio, ma la monarchia temeva il collasso dello Stato.

I deputati d’opposizione lasciarono la Camera e si ritirarono sull’Aventino: la secessione dell’Aventino, un gesto simbolico per delegittimare il governo.

Per settimane si parlò apertamente della caduta di Mussolini.
Sembrava vicino il crollo del regime.


La scelta di Mussolini

Ma Mussolini non era un uomo che conoscesse la resa.
Passò l’estate e l’autunno a misurare alleanze, a ricompattare il partito, a contare i suoi fedeli.

Scrisse sul Popolo d’Italia:
«La tempesta passerà. Il fascismo non cade per un colpo di pugnale, ma si rafforza nella prova.»

Molti lo credevano finito. Ma lui, in silenzio, preparava la controffensiva.


Il discorso del 3 gennaio 1925

Il 3 gennaio, Mussolini salì alla tribuna della Camera.
L’aula era tesa, le opposizioni assenti, i fascisti in attesa.

E pronunciò le parole che cambiarono la storia:

«Dichiaro qui, davanti a quest’aula e davanti al popolo italiano, che io, solo io, assumo la responsabilità politica, morale, storica di tutto ciò che è avvenuto. Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione.»

Non era una difesa. Era una sfida.

I deputati fascisti esplosero in un applauso fragoroso.
L’opposizione, già ritirata, rimase impotente.


La nascita della dittatura

Con quel discorso, Mussolini trasformò la crisi in vittoria.
Non cadde, non si dimise, non chiese perdono: si incoronò capo assoluto.

Da quel giorno, il fascismo cessò di essere un governo: divenne regime.

Le libertà politiche furono soppresse, la stampa imbavagliata, gli oppositori incarcerati o costretti all’esilio.
Le squadre divennero Milizia Nazionale, braccio armato dello Stato.

L’Italia entrava nella dittatura.


Conclusione

Così si chiudeva il percorso del giovane Mussolini.

Il bambino che a otto anni aveva detto al maestro «Non sono venuto per obbedire, sono venuto per capire» era diventato l’uomo che pretendeva obbedienza assoluta.

L’esule che aveva conosciuto la fame, il prigioniero di Forlì, il direttore del Popolo d’Italia, il capo delle squadre e il Presidente del Consiglio: ora era il dittatore.

Nel gennaio 1925, la sua parabola si compì.
Da quel momento in poi, non ci sarebbe più stato spazio per il dubbio, né per la domanda.
Solo per il comando.

Il giovane che aveva cercato di capire il mondo aveva finito per dominarlo.
E, nel farlo, aveva perso sé stesso.

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